L’effetto della pandemia sui rientri: gli italiani in situazione di mobilità precaria

A metà settembre 2020 la Farnesina aveva ricondotto in patria quasi 111 mila connazionali attraverso oltre mille operazioni terrestri, aeree e navali che avevano interessato ben 180 paesi del mondo. Nel periodo della crisi pandemica l’età media dei soggetti rientrati in Italia si è ridotta: sono aumentati i giovani e sono scesi i profili professionali più maturi. I sogni infranti degli studenti

L’effetto della pandemia sui rientri: gli italiani in situazione di mobilità precaria

Se molto si è stati in grado di raccontare su chi è partito – da quali territori italiani, verso quali destinazioni e con quali caratteristiche sociodemografiche – i dati raccolti sui rientri sono meno puntuali, ma altrettanto complessi. Ad affermarlo è il Rapporto Italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, presentato oggi.
A metà settembre 2020, secondo i dati del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la Farnesina aveva ricondotto in patria quasi 111 mila connazionali attraverso oltre mille operazioni terrestri, aeree e navali che avevano interessato ben 180 paesi del mondo. Un’operatività che ha richiesto un impegno senza precedenti da parte delle sedi diplomatiche in coordinamento col MAECI, sorprese dal virus come tutti e interessate esse stesse da possibili contagi.

D’altra parte, Gruppo Controesodo rileva che i rientri in Italia di capitale umano qualificato per motivi di lavoro, che stavano crescendo spinti dalle novità introdotte nel 2019 in tema di agevolazioni fiscali e dalla Brexit, sono collassati con l’inizio della pandemia e che solo nei mesi successivi i dati mostrano un lento e graduale ritorno alla normalità dei flussi migratori in entrata, e un forte recupero nel 2021.

I rientri durante la crisi pandemica

Nel periodo della crisi pandemica causata dal Covid-19 l’età media dei soggetti rientrati in Italia si è significativamente ridotta: sono aumentati i giovani (30-35 anni e soprattutto 25-30 anni) e sono scesi i profili professionali più maturi (35-40 e 40-45). “Ciò va interpretato come un’interruzione forzata ed emergenziale del periodo di formazione e di acquisizione di competenze all’estero e un rientro non per forza legato a opportunità lavorative – si legge nel rapporto -. Peraltro, se i rientri pre-Covid-19 hanno visto il Nord, e la Lombardia in primis, come territorio maggiormente considerato durante l’emergenza sanitaria, è il Sud che ha accolto la maggior parte dei giovani di ritorno”.
Il protagonismo del Meridione, per gli autori del rapporto, è la risultante di due elementi: “Innanzitutto, è l’effetto di un ritorno dovuto non a opportunità di lavoro ma a questioni emergenziali e, in secondo luogo, è la conseguenza dell’introduzione di un’agevolazione potenziata che passa dal 70% al 90% nel caso in cui la residenza viene trasferita dall’estero in un territorio del Sud Italia. Altro dato messo in luce dagli studi di Gruppo Controesodo è relativo al fatto che la pandemia ha incentivato il rientro dei lavoratori autonomi, dei ricercatori e dei soggetti privi di un’occupazione. La quota di chi, invece, si trova all’estero come lavoratore dipendente è diminuita fortemente”.

Il quadro dei rientri è, in realtà, molto complesso ed è possibile individuare diversi profili legati al tema mobilità in modo articolato. L’esempio più calzante è quello dei turisti, che hanno cercato in ogni modo di fare ritorno in Italia dalle località più varie, soprattutto quelli che o sono stati sorpresi dai lockdown mentre erano in vacanza o sono partiti ugualmente, incuranti della situazione sanitaria mondiale che si faceva sempre più grave. Il blocco totale degli spostamenti ha fatto collassare il settore turistico soprattutto per quei luoghi che vivono, quasi esclusivamente, della presenza di viaggiatori e turisti come il Marocco, la Spagna e diversi altri.

“Gli italiani residenti più ufficiosamente che ufficialmente all’estero e occupati nei settori connessi al turismo – agenzie di viaggi, tour operator, ma anche il mondo alberghiero e della ristorazione – sono stati travolti dall’emergenza sanitaria che per loro è diventata anche emergenza di sopravvivenza – si sottolinea -. Molti dei proprietari dei ristoranti italiani sono riusciti a resistere, alcuni si sono dovuti reinventare l’attività oltre la riconversione verso l’asporto come tutti, ma chi lavorava come dipendente in questo settore specie se da poco tempo perché di recente arrivo all’estero o inserito con contratto a tempo determinato, o non regolare, o a nero, non ha avuto scampo ed è stato falcidiato dall’epidemia. In tantissimi hanno perso il lavoro e l’unica strada percorribile era fare ritorno a casa”.
In generale, comunque, il progetto migratorio acerbo unito a un inserimento occupazionale non certo, instabile o irregolare sono state due delle caratteristiche che hanno spinto fortemente al rientro sia dall’estero sia per chi si trovava in un’altra regione d’Italia rispetto a quella di origine. Al ritorno dei lavoratori precari che si trovavano nella condizione di mobilità interna si è unito quello dei lavoratori pendolari e la grande questione dei frontalieri.

“Il caso del Canton Ticino è in questo senso emblematico – si afferma -, con i lavoratori costretti a dover scegliere tra salute e lavoro, tra affetti e responsabilità professionale in un momento in cui la Lombardia era piegata e sconvolta dal virus e la Svizzera sembrava essere immune. Alcuni datori di lavoro ticinesi hanno messo gratuitamente a disposizione dei loro dipendenti stanze d’albergo, lasciando loro la libertà di scegliere tra il rientro a casa e la permanenza nel Cantone, ma altri non hanno dato alcuna scelta, anzi li hanno invitati a non rientrare. Tra ricatti morali, opportunità ricevute con l’ospitalità di familiari o conoscenti quello che è emerso con forza è quanto il Ticino sia legato indissolubilmente al lavoro frontaliero, in quanto nelle mani di questi lavoratori si trovano alcuni dei settori nevralgici – e resi ancora più decisivi dalla pandemia – quali la sanità e la grande distribuzione. Il Ticino è solo un esempio, forse il più vicino geograficamente parlando, ma la questione frontalieri italiani ed europei è uno dei grandi temi della mobilità di oggi”.

Se la pandemia infrange i sogni degli studenti

Tra chi è rientrato ci sono innumerevoli studenti all’estero o fuori sede in Italia che hanno preferito ritornare in famiglia sia perché minorenni, sia perché si sono ritrovati con borse di studio in scadenza, programmi di studio sospesi e alloggi studenteschi in difficoltà. Una ricerca promossa dal Laboratorio di Ricerca Sociale del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina con la collaborazione di Sapienza Università di Roma registra che la pandemia ha infranto i sogni solo di una parte degli immatricolati, quelli appartenenti a famiglie di classe media che desideravano iscriversi in un’università fuori sede. L’incertezza e il timore dovuti al Covid-19 hanno fatto propendere le famiglie a ridurre le distanze e i costi dello studio universitario, complice le possibilità che si sono aperte grazie allo studio a distanza, ma hanno allo stesso tempo esacerbato le differenze di genere – le studentesse sono state molto più penalizzate –, e quelle geografiche – il Sud risulta sempre più danneggiato rispetto al Centro-Nord per l’offerta formativa e le opportunità – e di classe.

Del resto, gli stessi dati più recenti di AlmaLaurea registrano che il confronto tra provincia di conseguimento del diploma e provincia della laurea mette in evidenza che le migrazioni per ragioni di studio hanno una direzione molto chiara, quasi sempre dal Mezzogiorno al Centro-Nord. Ben il 26,6% dei laureati meridionali decide di studiare in un’altra ripartizione geografica (quota in lieve crescita negli ultimi anni, era il 24,8% nel 2015). Tra i laureati del Centro il valore è pari all’11,3% e tra quelli del Nord è solo del 2,9%. Tra l’altro, tenendo in considerazione il contesto familiare di provenienza dei laureati, si evidenzia che tali flussi portano a un aumento, al Nord, della quota di laureati provenienti da famiglie con un solido background socioeconomico e culturale, a depauperamento della ripartizione meridionale.

“Si tratta, dunque, di una doppia perdita per le aree meridionali - . Le ragioni alla base di queste tendenze riguardano soprattutto le caratteristiche dei territori: nelle regioni del Centro-Nord si osserva una maggior domanda di lavoro, un più solido sistema del diritto allo studio e un maggior numero di sedi universitarie. Il fenomeno è ancor più preoccupante se si considera che si tratta di laureati in grado di rappresentare un valore aggiunto importante per i sistemi locali in cui sceglieranno di stabilirsi”. Tra l’altro le indagini AlmaLaurea mostrano che la migrazione per motivi di studio spesso si tramuta in una migrazione per motivi di lavoro, poiché dopo la conclusione degli studi i flussi di ritorno verso le aree di origine risultano piuttosto limitati.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)