La Bielorussia che non si arrende al regime: quella degli studenti imprigionati e scappati

Nell'ultima settimana di luglio, il gruppo universitario padovano Movements for freedom, ha organizzato un campus estivo a Padova per studenti bielorussi, in modo da far sentire la loro voce diretta, una voce di lotta, a due anni esatti dall'elezione del 9 agosto 2020, che hanno decretato il sesto mandato consecutivo di Lukašenka, alimentado proteste e dissensi tra la popolazione bielorussa. Tra loro anche studenti universitari che sono stati arrestati e condannati: alcuni di loro sono ancora in carcere, in condizioni disumane, altri sono fuggiti all'estero. E da lì continuano a raccontare cosa fa il regime. A Padova alcuni di loro, hanno deciso di raccontare la propria storia. 

La Bielorussia che non si arrende al regime: quella degli studenti imprigionati e scappati

«È stato con l’arresto di Viktar Babaryka, in piena campagna elettorale e considerato come il favorito per la presidenza della Bielorussia, che abbiamo capito che avrebbe rivinto Aljaksand Lukašenka. Per me e altri connazionali è stato un segno chiarissimo che il regime avrebbe fatto di tutto per impedire elezioni libere e trasparenti». Ekaterina Ziuziuk è presidente dell’associazione Supolka che raggruppa i bielorussi in Italia. Significa “comunità” e nasce a maggio 2020, alla vigilia del voto presidenziale dove Lukašenka, al potere da 26 anni, si è ricandidato per il suo sesto mandato consecutivo, confermato dall’esito delle urne del 9 agosto, con l’80 per cento dei voti a favore.

Ekaterina, che con fierezza mostra una maglia con un cavaliere – stemma e colori che richiamano la bandiera che il suo Paese adottò quando era indipendente – è tra le testimonianze accolte mercoledì 27 luglio all’interno di un appuntamento promosso da Movements for freedom (gruppo di studenti dell’Università di Padova nato a marzo 2021 dopo l’intervento di un’attivista bielorussa invitata dal professor Marco Mascia) che per una settimana ha organizzato a Padova un campus estivo per studenti bielorussi, in modo da far sentire la loro voce diretta, una voce di lotta.

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Babaryka è stato accusato di riciclare fondi ottenuti in modo criminale e di aver ricevuto una tangente. Ne luglio 2021, la Corte suprema della Bielorussia l’ha condannato a 14 anni di prigione. Ekaterina è convinta che avrebbe vinto: «Per il solo sostegno alla sua candidatura aveva ottenuto 500 mila firme, quando ne sarebbero bastate, per legge, 100 mila. Dopo l’esito delle elezioni, siamo scesi in piazza a protestare, anche in Italia, abbiamo chiesto di vedere ufficialmente lo spoglio, anche perché i brogli elettorali in Bielorussia ci sono sempre stati: nel 2001, alla prima rielezione di Lukašenka, una mia amica ha visto sul registro la firma di sua nonna, peccato fosse morta. Il carattere fraudolento dell’elezioni del 2020 era evidente, ci sono state grandi manifestazioni non solo nella capitale, ma anche in periferia e questo ha indispettito le autorità che hanno iniziato usare la violenza».

In questa situazione di esecrabile repressione e di violenza a cui sono sottoposti quotidianamente i cittadini bielorussi, la repressione governativa si è abbattuta con gravità estrema anche sui giovani, in particolare sugli studenti: dall’agosto 2020 sono stati segnalati oltre 600 arresti di studenti, accusati e condannati semplicemente per aver preso parte a delle manifestazioni pacifiche. Spesso sono stati brutalmente arrestati, torturati e condannati da due a otto anni di carcere. Attualmente nelle prigioni bielorusse ci sono più di 50 studenti considerati prigionieri politici. Per queste ragioni moltissimi di loro sono stati costretti ad abbandonare il proprio Paese, spesso scappando in tutta fretta per non essere arrestati nuovamente, abbandonando i propri affetti. Attualmente questi studenti si trovano in esilio e non possono rientrare in Bielorussia, dove rischiano pesanti condanne e torture in carcere, ma continuano la propria lotta anche fuori dai confini per rovesciare il regime dittatoriale. Molti di loro sono stati accolti nelle università della Germania, della Polonia e dei Paesi Baltici, grazie a dei programmi speciali dedicati agli studenti profughi bielorussi.

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(al centro della foto Valery, Elezebeta e Alexandra)

Alexandra è tra gli studenti accolti a Padova durante il campus. Studia in Norvegia ed è stata in carcere per 15 giorni: «La mia battaglia è iniziata nel 2020 quando andavo alle manifestazioni pacifiche. In una di queste circostanze sono stata arrestata e portata in carcere per due settimane. Anche se sono andata via dalla Bielorussia, continuo occuparmi della comunicazione e a diffondere quello che succede. Oggi stiamo combattendo contro le conseguenze di quelle proteste, ma sulle nostre spalle grava anche la responsabilità della guerra in Ucraina. Quello che sta succedendo è il background della politica del nostro Paese. Abbiamo due azioni di sostegno per i nostri amici studenti bloccati in Bielorussia: si possono scrivere lettere, le cosiddette cartoline di solidarietà, per esprimere vicinanza, oppure delle borse di studio che verranno consegnati a ragazze e ragazzi quando usciranno dal carcere. Un modo per dar loro un futuro visto che saranno banditi dalle università stesse».

Alexandra in Norvegia non ha un’occupazione fissa, fa lavoretti necessari per racimolare soldi da inviare ai suoi genitori scappati in Polonia. Lì non conoscono nessuno, non hanno sostegno e vivono solo con i risparmi che spedisce la figlia. Perché le ripercussioni del regime bielorusso non si esauriscono contro “i diretti responsabili”, ma attanagliano e coinvolgono anche i parenti, i legami più stretti. Ne sa qualcosa Valery, marito di Iana, studentessa arrestata e ancora detenuta. Lui ora vive da un paio di mesi in Georgia e con lucidità guarda la drammatica escalation che sta travolgendo la società civile bielorussa: «In Bielorussia ci sono 1.260 persone dichiarate prigionieri politici, ma sappiamo che sono almeno il doppio. Una volta arrestato, rimane in prigione anche se sei in attesa del processo. Il più piccolo ha 14 anni, poi ci sono anche pensionati e malati di cancro che probabilmente moriranno dietro le sbarre. Mia moglie è stata arrestata il 12 novembre, mi sento due volte al mese per un massimo di tre o cinque minuti. Ma le comunicazioni si fanno sempre più difficili, così come tutto il resto, è come se inasprissero sistematicamente le condizioni: diventano sempre meno le cose che si possono mangiare in carcere. Le scrivo ogni settimana, ma lei risponde solo quando ha le energie: l’hanno messa ai lavori forzati, 10 ore al giorno, per una paga di tre euro al mese. Chi si trova in prigione è perché ha espresso la propria opinione anche sui social: attualmente è detenuto, con la condanna di sei anni e mezzo, un uomo che ha commentato un post contro l’invasione dei russi in Ucraina con la complicità di Lukašenka. Oppure hanno sparato alle gambe dei parenti implicati nel sabotaggio di armi che sarebbero stati destinati a supporto dell’esercito russo».

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Nelle domande dei partecipanti all’appuntamento, inevitabile il passaggio con l’attualità legata al conflitto ucraino. Che percezione hanno i connazionali che vivono in Bielorussia? Gli ospiti bielorussi concordano: la propaganda filorussa si è impadronita anche della comunicazione e giornali, radio e tv la sostengono e l’alimentano. Alla società non viene lasciato uno spiraglio di critica: «I miei nonni sono convinti che non c'è nessuna guerra – commenta Valery – I russi stanno semplicemente “denazificando” l’Ucraina. Eppure la famiglia dei miei nonni ha avuto parenti imprigionati nei lager, ammalati, che hanno subito torture. Mia nonna ha studiato storia, ma niente. La morale è che la propaganda è molto più forte di quello che possiamo credere». E la propaganda si alimenta anche grazie ai luoghi deputati del sapere, della conoscenza. Il regime invischia anche le scuole e le università, tutte asservite al potere.

Quel 12 novembre, Elezabeta lo chiama il “giovedì nero”. Ha lasciato il Paese e ora vive a Liberec, in Repubblica Ceca: può continuare a studiare architettura grazie a un programma di solidarietà, ma non sa quanto può durare perché per la Nazione ospitante, la Bielorussia è considerata Paese aggressore nel quadro geopolitico legato alla guerra. «Il primo settembre 2020, in occasione della Giornata della conoscenza, noi studenti siamo usciti lungo i viali delle varie università per manifestare il nostro dissenso e nelle settimane successive ogni università aveva al suo interno un gruppo di protesta, tutti poi sfociati nell’associazione Zbs Union, nata nel 1989 e che si fonda su principi democratici. In migliaia abbiamo manifestato pacificamente non solo la domenica, affiggendo manifesti, volantini e sventolando cartelloni. Abbiamo provato anche a convincere le università a cambiare le loro idee, a passare al lato del bene, ma le amministrazioni sono rimaste fedelissime al regime e questo ha sancito i vari arresti. Il 12 novembre sono stati arrestati 11 studenti e una professoressa, tutti legati alle nostre associazioni e da quel momento abbiamo capito che il regime non si sarebbe fermato e avrebbe cercato anche le nostre teste. Sono stati condannati a due anni e mezzo di detenzione, non ha guardato in faccia a nessuno, anche se alcuni avevano meno di 20 anni. L’unica soluzione era scappare. Dall’estero noi cerchiamo di sostenere i nostri compagni, ci rivolgiamo all’Europa e ai nostri coetanei e raccontiamo quello che sta succedendo. Anche se la Bielorussia è passata in secondo piano nell’attenzione globale, anche se non ci sono più notizie, beh gli arresti continuano».

Basta un’immagine, quella che restituisce Ekaterina, che sa tanto di pugno nello stomaco delle nostre coscienze: a due ore di volo dall’Italia c’è una dittatura che governa in maniera incontrollata.

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