La “crisi delle targhe” serbo-kosovara: singolari convergenze tra fattori locali e internazionali. Nota geopolitica

La crisi, aperta a settembre 2021, si è riaccesa ad agosto, quando il kosovaro Kurti ha imposto il blocco dei mezzi reimmatricolati con targa serba, scatenando le proteste barricadiere della minoranza, mentre Belgrado ha riunito il consiglio di sicurezza parlando di rischio guerra incombente.

La “crisi delle targhe” serbo-kosovara: singolari convergenze tra fattori locali e internazionali. Nota geopolitica

Stando all’annuncio di Borrell, il 23 novembre sui Balcani è sembrato tornare il sereno: rispetto alla “crisi delle targhe”, Belgrado si è impegnata a non emetterne più a uso dei serbo-kosovari, mentre Pristina ha rinviato il sequestro dei veicoli inottemperanti ad aprile 2023. Ma i fatti posteriori hanno detto altro. Alla vigilia del Natale ortodosso, nell’enclave serba nord-kosovara due giovani sono stati feriti dai colpi esplosi da un’auto albanese, il cui conducente è stato fermato dalla polizia. Nei prossimi giorni, poi, si attendono le agitazioni dei serbofoni contro Belgrado, colpevole di avere ordinato la rimozione delle barricate a seguito del rilascio del poliziotto slavo il cui arresto da parte dei colleghi kosovari a dicembre aveva spinto la Serbia a rimettere in stato d’allerta l’esercito, chiedendo al comando Nato della Kfor – ridotta tremila unità ma ancora di stanza con funzioni di peacekeeping – l’autorizzazione (ovviamente negata) a intervenire a tutela della minoranza. E ancora fermi, sparatorie, manifestazioni, reparti speciali da Pristina.
La crisi, aperta a settembre 2021, si è riaccesa ad agosto, quando il kosovaro Kurti ha imposto il blocco dei mezzi reimmatricolati con targa serba, scatenando le proteste barricadiere della minoranza, mentre Belgrado ha riunito il consiglio di sicurezza parlando di rischio guerra incombente. In realtà è l’ultimo atto di una tensione trascinata dal 2008, a 10 anni dalla guerra con la Serbia di Milošević, quando il Kosovo secessionista, amministrato dalla missione Unmic (poi affiancata dall’europea Eulex), dichiarò unilateralmente l’indipendenza. Oggi è riconosciuta da 98 membri Onu su 193: ovviamente non dalla Serbia, né da Russia e Cina, ma neanche da 5 membri Ue (Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia, Romania) alle prese con irredentismi interni. Al di là del riconoscimento, oggetto di periodiche frizioni resta l’amministrazione della minoranza serba nel nord e nei villaggi attorno ai monasteri ortodossi disseminati in un Paese per il 95% di etnia albanese e di fede islamica ereditata dalla dominazione ottomana.
Nel 2013 l’Accordo di Bruxelles ipotizzò un’associazione autonoma dei municipi serbi, compensando il Kosovo con l’ammissione ai negoziati Asa prodromici alla candidatura a membro Ue, con una Serbia candidata già nel 2009. Nel 2018 si prospettarono in alternativa scambi territoriali tra i due Stati, ma la letargia di Bruxelles ha rivelato la refrattarietà di diversi Stati membri: quanto alla Serbia, stante il sospetto di inglobare un satellite legato atavicamente a Mosca dalla fratellanza panslava; sul Kosovo pesano il timore nell’immigrazione di massa da un Paese economicamente più che depresso, il reticolo mafioso che lo ha reso crocevia di droga, armi e prostituzione, nonché gli interessi a prolungare una sospensione profittevole per i capitali esteri che, nelle privatizzazioni locali, hanno trovato di che lucrare.
Nel 2020 il tentativo Usa di sostituirsi all’Ue guidando una normalizzazione a vettore economico, nei termini di una “mini-Schengen” tra i due Paesi. Essa trovò concordi i presidenti Vučić e Thaçi, ma fu bloccata sul nascere, quando a giugno, a tre giorni dal summit a Washington, il Tribunale dell’Aja rinviò a giudizio Thaçi per crimini di guerra e contro l’umanità durante il conflitto 1998-9, giacché responsabile della tortura e dell’uccisione di un centinaio tra serbi, albanesi e rom – tacendo dei fatti di corruzione, estorsione e collusione mafiosa perpetrati come capo del Partito democratico e primo ministro, insabbiati dalla magistratura asservita.
Dal 2021 in Kosovo governa Kurti. Già primo ministro nel 2020 sotto la presidenza Thaçi, guida il Vetëvendosje!, che ha attenuato il profilo di partito antisistema promotore dell’annessione all’Albania e avverso al protettorato Unmic e all’Eulex muovendo accuse di neocolonialismo. Kurti ha garantito soprattutto continuità al legame con gli Usa, per i quali il Kosovo resta strategico per irradiare l’influenza nei Balcani. Suo simbolo è Camp Bondsteel, installata su suolo kosovaro dopo i controversi bombardamenti sulla Serbia che misero fine ai crimini di Milošević: la più grande base statunitense all’estero, atta a inibire concorrenze egemoniche e sita alla confluenza di oleodotti tra cui il transbalcanico di proprietà della Halliburton Oil.
La Russia, pur mantenendo il ruolo di sorella maggiore, oggi circoscrive l’azione al piano diplomatico, come testimoniato dal sostegno solo verbale a Belgrado nella recente crisi: sufficiente a lasciar paventare ripercussioni della guerra in Ucraina in un teatro viepiù prossimo all’Occidente, ma senza compromettersi fattivamente.
Eppure la guerra in Ucraina un effetto nella contesa serbo-kosovara l’ha prodotto. La richiesta di adesione Ue formalizzata dal Kosovo il 15 dicembre suggerisce un nesso tra la riapertura della vertenza sulle targhe e l’interesse di Belgrado e Pristina a riguadagnare l’attenzione di Bruxelles sull’integrazione in stallo. Tanto più che la procedura accelerata promessa a Kiev ha suscitato malumori per la disparità di trattamento. Negli ultimi anni la Serbia ha portato le spese militari a + 70% con forniture da Russia, Cina e Francia; il Kosovo preme per un proprio esercito e spinge la Kfor alla porta. Oggi Vučić e Kurti offrono prove muscolari, saldando i consensi e domando gli ultranazionalisti di casa. Al contempo alimentano a intermittenza le preoccupazioni europee in un frangente internazionale già critico, per poi presentarsi come interlocutori della distensione. In cambio di un’integrazione tanto più necessaria ora: al Kosovo, troppo povero e problematico per risultare attraente all’Albania, definitivamente disinteressata all’annessione; alla Serbia, legata alla sponda politica di Mosca e dipendente all’85% dal suo gas, che rischia di trovarsi isolata e senza paracadute al di qua della nuova cortina di ferro.
Tuttavia, visti gli episodi di reciproca violenza e le delusioni serbofone per la moderazione di Belgrado, il timore è che una scintilla incontrollata faccia scoppiare l’incendio. I due governi sanno che, date le loro condizioni e aspirazioni, scatenare una guerra sarebbe puro autolesionismo: più utile limitarsi a minacciarla per sollecitare Bruxelles. Ma nel gioco delle parti giova considerare che la corda dell’odio interetnico, per quanto abilmente tesa, può spezzarsi in qualche punto imprevisto.

Giuseppe Casale*

*Pontificia Università Lateranense

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Fonte: Sir