La morte annunciata di Saman: così la ragazza è stata lasciata sola (e senza protezione)

Si continua a cercare il corpo di Saman Abbas, la giovane di origine pakistana, che si è opposta a un matrimonio forzato. Secondo la testimonianza del fratello sarebbe stata uccisa dallo zio. Ora ci si chiede perché non sia stata tutelata a sufficienza dalla legge e dai servizi. “Valutazione del rischio sbagliata, andava monitorata giorno per giorno”

La morte annunciata di Saman: così la ragazza è stata lasciata sola (e senza protezione)

Le parole del fratello non lasciano trapelare più nessuna speranza: Saman Abbas, la ragazza di origine pakistana, che si è ribellata a un matrimonio combinato, sarebbe stata uccisa, probabilmente per strangolamento. Il corpo ancora non si trova ma le forze dell’ordine stanno setacciando i campi di Novellara, dove si pensa sia stata sepolta poco dopo il delitto. I familiari, incluso lo zio, che sarebbe l’autore materiale del reato, sono accusati di omicidio premeditato aggravato dai “futili motivi”: il Gip Luca Ramponi parla di "gelosia" e "volontà di controllo”, "espressione di spirito punitivo innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall'agente come atti di insubordinazione". Una tragedia che giorno dopo giorno assume i contorni di una morte annunciata: Saman aveva denunciato gli abusi da parte della famiglia già nel 2020. Era stata ospitata in una casa famiglia per minorenni ma una volta raggiunta la maggiore età era tornata a casa, per recuperare i documenti e riuscire così ad essere finalmente libera. Ma la famiglia usava la sua carta d’identità come arma di ricatto per trattenerla. A fine aprile la ragazza era tornata alla stazione di polizia per denunciare i genitori. Ma le forze dell’ordine hanno perquisito la casa dove viveva 15 giorni dopo, il 5 maggio, quando Saman era già sparita e i familiari avevano lasciato l’Italia. 

L’approccio di sistema e la valutazione del rischio che sono mancati

Un ritardo nell’intervento che appare oggi l’ultimo tassello di un sistema di protezione che non ha funzionato come avrebbe dovuto. Lasciando la ragazza sola. “Saman è stata accolta in una comunità per minori, nel suo caso la problematica non era soltanto che fosse minorenne, si trattava infatti di una ragazza adolescente che aveva denunciato la famiglia perché voleva costruirsi un futuro differente da quello che le era stato imposto - sottolinea Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama di terre onlus e attivista dei diritti delle donne-. In questi casi va fatta una valutazione del rischio diversa, per esempio non andrebbe lasciata sola con la famiglia se ci sono indicatori di rischio violenza così alti. E che non riguardano solo i genitori ma l’intera famiglia allargata, in questo caso lo zio. Noi abbiamo seguito diversi casi in cui il padre era permissivo ma poi sopraggiungeva qualche parente che si poneva a garanzia dell’onore dell’intera famiglia, cercando di indirizzare la vita di queste donne nei canoni del rispetto da loro contemplato”. 

Secondo Dal Pra quello di Novellara non è un caso isolato: in alcune comunità straniere diverse sono le situazioni di assoggettamento delle ragazze alle famiglie, anche se poi raramente sfociano in casi di violenza estrema come questo. L’associazione da anni porta avanti indagini sul territorio sia sui matrimoni combinati sia su quelli forzati. “A volte prendono coraggio e si ribellano, ben consapevoli di ciò a cui vanno incontro”, aggiunge. E’ per questo che la risposta anche a livello sociale deve essere diversa: “Il territorio in cui viveva Saman ha lavorato in questi anni sul dialogo interculturale e interreligioso, trascurando però l'intercultura di genere. Bisogna fare ammenda su questo e saper vedere che ci sono problemi anche sui diritti negati alle donne. Purtroppo, invece, si fa ancora finta che non ci siano. I primi casi li abbiamo segnalati quasi 15 anni fa e oggi non c’è ancora un modo per lavorare in rete, che faccia azione, formazione e prevenzione”. Il percorso di una ragazza vittima di violenza familiare dovrebbe tenere insieme l’accoglienza in un centro antiviolenza per donne e l’azione del servizio sociale, attraverso una strategia di protezione che tenga conto anche di possibili “resistenze alla protezione. Non bisogna solo pensare all’allontanamento dalla famiglia ma guardare anche alla solitudine che queste ragazze possono sentire su di sé e ai sensi di colpa che provano perché accusate di avere disonorato la famiglia - aggiunge -. Per questo vanno monitorate giorno per giorno. La tutela di queste ragazze deve entrare nell’agenda della politica: perché parliamo di diritti universali, di tutte le donne, non di una migrante”. 

Quel razzismo sottile nel silenzio sul caso

E’ del 2017 il film “Cosa dirà la gente”, scritto e diretto da Iram Haq, che racconta la storia di Nisha, una ragazza che vive in Norvegia con la famiglia pakistana molto tradizionalista. E che come Saman si ribella a un matrimonio forzato per poi tornare nella famiglia d’origine a cercare una riappacificazione. “E’ evidente che qualcosa non abbia funzionato, innanzitutto dal punto di vista della normativa- sottolinea Marwa Mahmoud, consigliera comunale di Reggio Emilia e presidente della Commissione diritti umani e pari opportunità -. Di fronte a casi di matrimoni forzati in altri paesi europei si attua un protocollo di tutela, che favorisce l’ emancipazione di queste ragazze ed evita che siano costrette a tornare dai genitori”. L’arma di ricatto della famiglia di Saman era quella di trattenere i documenti della ragazza perché non potesse allontanarsi. “Se avessimo riformato la legge 91/92, concedendo la cittadinanza ai giovani che crescono e studiano qui sicuramente anche lei sarebbe stata più tutelata - aggiunge -. L’emancipazione delle seconde generazioni da conflitti di questo tipo e da dinamiche patriarcali passa anche per il riconoscimento di diritti. Oltre a questo bisogna lavorare su sistemi di prevenzione”. 

La consigliera di Reggio Emilia in questi giorni ha condannato anche il silenzio da parte della politica, e in particolare del centrosinistra, sulla vicenda. “Gli amministratori locali hanno subito espresso solidarietà e sono accorsi, ma a livello nazionale nessuno ha parlato. Da una parte c’è il  timore di essere tacciati di razzismo nel condannare l’episodio - spiega -. Dall’altro c’è un razzismo latente nel paternalismo con cui si guarda ai migranti e ai loro figli senza trattarli come pari. Inoltre non credo che nei partiti ci siano figure particolarmente preparate nel riuscire a fare le giuste sfumature quando devono trattare casi come questo e, in generale, di femminicidi”.

Il matrimonio forzato è violenza contro le donne

“I matrimoni forzati sono una delle forme della violenza contro le donne riconosciute dalle Nazioni Unite, oggetto di campagne di prevenzione da decenni. È stato il movimento delle donne a mettere in crisi questo modello, affermando i diritti delle donne come diritti umani e chiedendo a gran voce la fine delle pratiche che li violano”, afferma Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, l’associazione che si occupa di tutela delle donne abusate e che nel 2017 ha condotto una ricerca approfondita sul fenomeno dei matrimoni forzati. Da anni i centri antiviolenza della rete D.i.Re accolgono donne di origine straniera in fuga da matrimoni forzati. “Occorrono progetti mirati che mettano al centro i diritti delle donne, di tutte le donne, e costruiscano un dialogo con le comunità di origine straniera presenti in Italia per promuovere un cambiamento che argini la tendenza a imporre tra le mura domestica, spesso esacerbandolo, il controllo patriarcale e crei le condizioni per l’emersione del fenomeno - prosegue Veltri- . Anche in questo caso, come ripetiamo sempre, alla violenza maschile contro le donne va data una risposta di sistema, perché deve essere chiaro a una ragazza che decide di sottrarsi a un matrimonio forzato a chi rivolgersi e che tipo di sostegno riceverà”, conclude la presidente di D.i.Re. “I centri antiviolenza non devono essere solo supporti di emergenza: il sapere intorno alla violenza costruito in oltre trent’anni dalle operatrici e la metodologia di lavoro basata sulla relazione tra donne sono risorse imprescindibili per affrontare la violenza mettendo al centro le donne e i loro desideri”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)