Migranti e cambiamenti climatici. Legambiente: 4 su 10 vivono in contesti di "vulnerabilità estrema"

Rapporto di Legambiente. Nelle regioni più a rischio (Africa occidentale, centrale e orientale, Asia meridionale, America centrale e meridionale, piccoli stati insulari in via di sviluppo e Artico) tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte superiore rispetto alle regioni che presentano una minore vulnerabilità

Migranti e cambiamenti climatici. Legambiente: 4 su 10 vivono in contesti di "vulnerabilità estrema"

Quattro persone su dieci vivono in contesti di "estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici". E nelle regioni più a rischio Africa occidentale, centrale e orientale, Asia meridionale, America centrale e meridionale, piccoli stati insulari in via di sviluppo e Artico, tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte superiore rispetto alle regioni che presentano una minore vulnerabilità. Dati contenuti in un rapporto diffuso da Legambiente alla vigilia della Giornata nazionale della memoria e dell'accoglienza del 3 ottobre.

Il dossier è intitolato "Migranti ambientali, gli impatti della crisi climatica". Lo studio ricorda che nel mondo esistono popolazioni e gruppi sociali più fragili, che pagano il prezzo più alto della crisi climatica: persone con limitato accesso a servizi e risorse o che vivono in uno stretto rapporto di sussistenza socioeconomica con il territorio circostante.

Secondo l'International Panel on Climate Change (Ipcc), oltre il 40% della popolazione mondiale (tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone) vive in contesti di "estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici", individuando ben 127 rischi che riguardano gli insediamenti, le infrastrutture, l'economia, le strutture sociali e culturali, la sicurezza idrica e alimentare, la salute e il benessere degli individui, gli sfollamenti e le migrazioni*. Tra le macroregioni più a rischio l'Africa occidentale, centrale e orientale, l'Asia meridionale, l'America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l'Artico: in queste aree, tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte superiore rispetto alle regioni che presentano una minore vulnerabilità.

Nel mondo, a fine 2021, sono 89 milioni e 300 mila le persone che sono state costrette ad abbandonare le proprie case in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e altre motivazioni: parla chiaro l'ultimo rapporto statistico annuale dell'Unhcr, 'Global Trends'. Un dato estremamente alto, mai registrato prima dall'agenzia delle Nazioni Unite, che segna un incremento dell'8% rispetto all'anno precedente e che è raddoppiato nell'arco di 10 anni".

Nel comunicato si legge ancora: "Secondo il rapporto 'Groundswell' della Banca mondiale, a causa della crisi climatica, entro il 2050, 216 milioni di persone in sei diverse regioni del mondo potrebbero essere costrette a spostarsi all'interno dei loro paesi. Per cui un'azione immediata e concertata per ridurre le emissioni globali e sostenere uno sviluppo sostenibile, inclusivo e resiliente - in linea con l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici - potrebbe ridurre la portata della migrazione climatica fino all'80%, riducendo la portata degli sfollamenti a circa 44 milioni di persone".

Secondo Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, "per un'agenda di pace e sviluppo occorre un cambio di paradigma immediato che metta al centro la questione della giustizia climatica". Il presidente ha aggiunto: "Se è vero che nessuno si può ritenere al sicuro da eventi estremi come inondazioni, siccità, ondate di calore, tempeste e incendi, a pagare il prezzo più alto sono i gruppi sociali più fragili".

Ciafani ha sottolineato ancora: "Auspichiamo che la ventisettesima Conferenza delle Parti (Cop) delle Nazioni Unite del prossimo novembre in Egitto possa essere l'occasione per trovare un accordo che tenga insieme le politiche di mitigazione, adattamento, compensazione e aiuto economico e tecnologico per le comunità più vulnerabili; ampliando anche le forme di protezione a tutela da chi fugge dagli effetti della crisi ambientale e climatica, vuoto normativo che va colmato sia a livello nazionale che internazionale".

Nel testo si aggiunge. "Secondo lo studio 'Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati' pubblicato dalla rivista Nature, dal 3% al 20% dei conflitti avvenuti durante lo scorso secolo ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima. È il caso, ad esempio, della guerra civile siriana - con 6 milioni e 700 mila sfollati interni in 10 anni - collegata alla scarsa disponibilità idrica causata da una lunga siccità, un innesco climatico seguito da un intreccio di fattori come tensioni religiose, politiche e sociali che hanno ridotto la popolazione allo stremo. O ancora quello della regione africana del Sahel, dove circa il 70% della popolazione vive di agricoltura e pastorizia e le tensioni già esistenti per questioni di suolo e accesso alle risorse idriche sono esacerbate da lunghi periodi siccitosi e violente piogge e inondazioni". (DIRE)

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)