Migranti e rifugiati, ecco perché non arrivano in aereo

UNA VIA SICURA  Prima puntata di un nostro reportage realizzato in collaborazione con Acri. Dal 2013 ad oggi quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo: nell'ultimo anno se ne stimano oltre 1.400. Ma le alternative sicure e regolari restano ancora troppo poche. Ne parliamo con Chiara Cardoletti, Rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino di Unhcr

Migranti e rifugiati, ecco perché non arrivano in aereo

Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) dal 2013 ad oggi quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo. La maggior parte, quasi 20.000, sono morti nel Mediterraneo centrale, la rotta più pericolosa al mondo. Solo nell’ultimo anno si parla di oltre 1.400 morti e dispersi. Ma a ogni naufragio, la domanda è la stessa: perché migranti e rifugiati, anziché affidarsi a viaggi così pericolosi, non prendono un aereo? Quali alternative sicure ci sono? Ne parliamo di seguito con Chiara Cardoletti, Rappresentante dell’Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino.
La sua intervista è il primo di una serie di dieci contributi che nel loro insieme costituiscono il reportage "Una via sicura", realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Un lavoro giornalistico curato da Eleonora Camilli, con il supporto grafico di Diego Marsicano, che affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Cardoletti, tante persone si domandano perché le persone in fuga dai paesi di origine non arrivino regolarmente in Europa, anziché affidarsi alla via del mare. Lei cosa risponderebbe?
A parte casi eccezionali, le persone che fuggono da guerre e persecuzioni, non hanno la possibilità, spesso per le circostanze della fuga, o anche per le restrizioni all’ingresso in paesi sicuri, di viaggiare regolarmente su un aereo. La loro vita o libertà sono minacciate e i rifugiati spesso sono costretti ad allontanarsi dal loro Paese di origine rapidamente, a volte anche nel giro di poche ore. La maggior parte fugge inizialmente nei Paesi confinanti, i quali spesso devono affrontare situazioni economiche e sociali complesse. Il 74% dei rifugiati vive oggi in paesi a basso o medio reddito. Accade spesso che in questi Paesi sia quindi impossibile o molto difficile ricostruirsi una vita in dignità. Per questo motivo, accompagnati a volte anche da ragioni di sicurezza, alcuni rifugiati cercano di spostarsi per raggiungere altri Paesi dove sperano di poter trovare una protezione stabile e concrete opportunità per un futuro migliore.

Spostarsi regolarmente e in sicurezza in Paesi dove la protezione e le prospettive di vita sono forti è praticamente impossibile. Ad oggi non esiste un visto che consenta di chiedere asilo nel Paese di destinazione. Molti rifugiati inoltre non hanno un passaporto o non hanno mai avuto un documento di identità. L’unica possibilità di spostarsi in maniera sicura e regolare sono programmi come il reinsediamento, i corridoi umanitari, ed altri programmi simili.Purtroppo,a causa del numero limitato di posti messi disposizione degli Stati in questi programmi, i rifugiati sono costretti ad intraprendere viaggi irregolari e spesso molto pericolosi, affidandosi a trafficanti senza scrupoli. L’alto numero di persone che ogni anno perdono la vita nel Mar Mediterraneo testimonia le tragiche circostanze e scelte che i rifugiati sono costretti ad affrontare, in una fuga che si ripete da paese in paese. Se le alternative fossero maggiori, molte di queste persone non rischierebbero la propria vita e quella dei propri figli.

Quali sono le alternative, cioè le principali vie sicure e legali che oggi abbiamo a disposizione e quali per Unhcr andrebbero incentivate?
Le principali via sicure e regolari per i rifugiati sono il reinsediamento ed altri canali di ingresso complementari. Il reinsediamento comporta il trasferimento di rifugiati particolarmente vulnerabili da un paese di primo asilo verso un Paese terzo. È un importante strumento di protezione internazionale, poiché i rifugiati non possono far ritorno nel proprio paese e a volte non possono restare in sicurezza nel paese di primo asilo; in questi casi il reinsediamento costituisce l’unica soluzione praticabile che garantisca la sicurezza dei rifugiati, offrendo loro una protezione legale e una residenza stabile. I canali di ingresso complementari sono percorsi che si aggiungono al reinsediamento, e per i quali l’Italia ha sviluppato delle buone prassi: i corridoi umanitari e universitari e le evacuazioni di emergenza. Entrambi questi strumenti sono indirizzati a rifugiati o persone che hanno bisogno di protezione internazionale che si trovano in un Paese di primo asilo o di transito, da dove possono essere trasferiti legalmente e a volte a titolo permanente in un Paese dove avranno pienezza dei diritti e verranno supportati in un percorso di integrazione. Questi programmi sono importanti strumenti di protezione nella ricerca di soluzioni durevoli ma si basano esclusivamente sulla disponibilità dei Paesi che decidono il numero delle quote di ingresso. Si crea quindi un divario tra i bisogni concreti e le quote offerte. Guardando al 2022, in base alle nostre stime, 1.400.000 rifugiati avevano bisogno di reinsediamento. Ad oggi solo 41.000 persone sono state reinsediate, ovvero circa il 3%. Tengo a precisare che il numero dei rifugiati stimati per reinsediamento corrisponde solo a una piccola parte dei rifugiati nel mondo, che nel 2021 erano oltre 27 milioni, su una popolazione di persone sfollate di oltre 100 milioni (tra cui includiamo non solo rifugiati, ma anche sfollati interni, richiedenti asilo e altre categorie). Per il 2023 prevediamo che i rifugiati che avranno bisogno di reinsediamento supereranno i 2.000.000 e sappiamo che solo pochi di loro potranno essere reinsediati. I numeri parlano chiaro. I programmi esistono ma sono evidentemente insufficienti. E’ in questo divario abissale tra i bisogni delle persone e le quote degli Stati che si infrangono le promesse di solidarietà e, come dice Papa Francesco, il Mediterraneo, come altri luoghi nel mondo per i quali scappano i rifugiati, è divenuto un cimitero. Per questo motivo, l’Unhcr continua a chiedere l’aumento sostanziale di posti nei programmi esistenti e che sempre più Paesi si impegnino nel reinsediamento e in altri canali regolari.

Lo sforzo degli Stati europei, dunque, non è sufficiente?
A partire dal 2015, con l’Agenda Europea sulla Migrazione, la Commissione ha predisposto specifici fondi per finanziare lo sviluppo e la realizzazione di un programma di reinsediamento comune europeo, dando una spinta importante a vari Paesi europei ad aprire nuovi programmi di reinsediamento o a potenziare quelli esistenti, fino ad arrivare, nel 2019, ad oltre 22.000 rifugiati reinsediati in un anno nei 27 Paesi dell’Unione. Nel 2020 la pandemia ha comprensibilmente rallentato questo flusso, che però nel 2021 è ritornato ai livelli pre-covid. Anche il recente impegno di alcuni Paesi europei con l’evacuazione dei rifugiati afghani ha rappresentato un importante segnale di solidarietà ed assunzione di responsabilità; è evidente però dai numeri che anche queste cifre non sono ancora sufficienti a venire incontro al bisogno globale di reinsediamento e che un continente come quello europeo può e deve fare di più sotto questo fronte.

L'Italia sui corridoi umanitari ha fatto da apripista in Europa, altri paesi stanno seguendo l'esempio?
Si, l’Italia in questo è stata all’avanguardia e il modello dei corridoi umanitari costituisce certamente una buona prassi. Le associazioni promotrici del progetto - la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese e successivamente anche la Caritas per conto della CEI e più recentemente l’Arci - di concerto con il Ministero dell’Interno e degli Affari Esteri, non solo si occupano dell’individuazione dei beneficiari nei Paesi di primo Asilo e del loro trasferimento in sicurezza in Italia, ma coinvolgono comunità locali nell’accoglienza ed integrazione dei rifugiati. Il coinvolgimento della società civile e delle comunità di accoglienza ha portato a risultati positivi per quanto riguarda i processi di inclusione nel tessuto sociale italiano. Grazie a questo programma oltre 3.000 rifugiati e richiedenti asilo sono giunti in Italia in modo legale e sicuro. Questo modello è stato anche studiato e adottato da altri Paesi europei. Come Unhcr apprezziamo e supportiamo il progetto dei corridoi umanitari, al quale abbiamo conferito il nostro Premio Nansen per i rifugiati nel 2019, e speriamo che sempre più Paesi europei possano aderire a questa o simili tipologie di progettualità.

Cos’altro andrebbe fatto?
L’Unhcr lavora per favorire l’espansione dei canali regolari di ingresso sia di carattere umanitario, come i corridoi umanitari e le evacuazioni d‘emergenza dalla Libia, ma anche i canali di studio e di lavoro dedicati ai rifugiati. Nel mondo sono tantissimi i rifugiati che hanno la volontà e gli strumenti per potere accedere a forme di educazione scolastica superiore, ma che non hanno accesso ad opportunità accademiche nel luogo in cui si trovano. È Importante coinvolgere attori pubblici e privati, quali università, ong, associazioni di categoria, imprenditori, le istituzioni e associazioni del terzo settore per cercare di sviluppare programmi innovativi che consentano ai rifugiati che hanno requisiti accademici o lavorativi di potersi muovere legalmente e in sicurezza, per studiare e lavorare. In Italia, ad esempio il progetto UNICORE (University Corridors for Refugees) a partire dal 2019 ha consentito a 120 studenti rifugiati di venire in Italia e ottenere una borsa di studio per corsi di laurea di secondo livello in più di 33 università italiane; un progetto simile che portiamo avanti con l’Università Luiss, è il Progetto Mediterraneo, grazie al quale oltre 20 studenti sono stati e saranno ammessi in Italia per poter frequentare un ciclo completo di studi universitari. L’obiettivo di questi progetti è non solo favorire l’accesso all’istruzione universitaria garantendo un ingresso legale e sicuro in Italia, ma anche quello di accrescere le competenze dei rifugiati che potrebbero un giorno, se le condizioni lo consentiranno, ritornare nelle loro aree di origine contribuendo allo sviluppo e alla crescita dei loro territori. Nessun canale però sarà mai sufficiente se non saranno affrontate alla radice le cause che spingono i rifugiati a lasciare il proprio paese. Dobbiamo investire sulla pace. Dobbiamo anche investire sempre di più in interventi umanitari e di sviluppo in paesi di primo asilo e di transito affinché sia possibile per i rifugiati, a fianco delle comunità che li ospitano, accedere alle cure mediche e agli studi, aspirare ad un lavoro dignitoso dove si trovano.

Spesso i corridoi umanitari sono usati dalla propaganda politica in contrasto ai viaggi in mare e alle attività di search and rescue. Ma oggi sono realmente un’alternativa?
Se pensiamo ai rifugiati che avrebbero bisogno di essere reinsediati e ai posti disponibili, sicuramente al momento i canali regolari di ingresso non sono un’alternativa realistica ai viaggi in mare. Neanche in caso di un significativo incremento dei canali regolari è possibile pensare che tali programmi possano costituire un’alternativa per tutti. In uno scenario come quello globale, così complesso e in continua evoluzione, un incremento dei canali di ingresso regolari consentirebbe di fornire una opportunità fondamentale per una parte sempre maggiore delle persone che hanno bisogno di protezione, in particolare per i più vulnerabili. Rappresenterebbe inoltre un forte supporto e un segnale di vera solidarietà e cooperazione verso quei Paesi di basso e medio reddito che accolgono la maggioranza dei rifugiati nel mondo. L’aumento dei posti darebbe poi credibilità al sistema stesso. Ad oggi i posti sono così pochi che gli stessi rifugiati perdono fiducia nella concreta possibilità di accedere a tali programmi. Molti devono attendere anni prima di essere reinsediati. L’aspettativa di accedere in tempi ragionevoli a canali di ingresso sicuri potrebbe indurre molti rifugiati a non intraprendere viaggi pericolosi. Potrebbe salvare loro la vita. In aggiunta, tengo a ricordare che il reinsediamento e gli altri canali di ingresso regolare sono strumenti per fornire protezione e soluzioni durevoli ai rifugiati e non strumenti di gestione dei flussi migratori. Il potenziamento di questi canali non deve essere usato per impedire a chi cerca di raggiungere un luogo sicuro dove presentare domanda di asilo. Il diritto a chiedere asilo ha radici profonde ed è riconosciuto in vari strumenti a livello internazionale.  Per quanto riguarda le attività di ricerca e soccorso in mare (SAR), le regole sono chiare: le persone in condizioni di pericolo che si trovano in mare devono essere soccorse e portate in un luogo sicuro, sempre. Le ong impegnate in questo ambito svolgono un ruolo determinante nel salvare la vita di persone che scappano da situazioni molto difficili come la Libia. Detto questo, è evidente che serve un approccio europeo, comune, nel gestire questi fenomeni che non possiamo più chiamare emergenze e che sfidano i Paesi membri ad interrogarsi su quali valori vogliono mettere alla base dell’Europa del presente e del futuro.

Cosa ci dicono i numeri?
I numeri ci parlano di una popolazione di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati sotto il nostro mandato che è cresciuta costantemente negli ultimi dieci anni e che purtroppo a fine 2022 prevediamo raggiungerà la soglia dei 103.000.000 di persone. Nel 2022, l’Unhcr ha dichiarato ed è intervenuto in 37 nuove emergenze. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha portato a 7 milioni di rifugiati che hanno cercato protezione in Europa e a oltre 6 milioni di sfollati interni, molte altre sono le crisi che, spesso dimenticate, ci restituiscono uno scenario preoccupante. L’Unchr ha individuato 12 crisi in cui le risorse messe a disposizione della comunità internazionale sono diminuite e costringono le nostre operazioni a ridurre servizi essenziali. La continua crescita di questi numeri rende quindi impellente la necessità di rafforzare la cooperazione internazionale, aumentare gli investimenti umanitari e di cooperazione allo sviluppo per stabilizzare i paesi d’accoglienza e potenziare, tra le altre attività di protezione, anche i programmi di reinsediamento e gli altri canali regolari che consentano a un numero sempre maggiore di rifugiati di raggiungere regolarmente e in modo sicuro luoghi dove possano tentare di ricrearsi una vita in maniera stabile.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)