Nel Sudan dove non c’è tregua anche dopo il cessate il fuoco

Dopo il cessate il fuoco tra l’esercito del regime e le truppe Rsf sono ripresi intensi scontri. Oltre 1 milione di sfollati e quasi 400 mila esodi. Sale la preoccupazione per le lotte tribali

Nel Sudan dove non c’è tregua anche dopo il cessate il fuoco

Bombardamenti, saccheggi e confronti armati strada per strada continuano a mettere a ferro e fuoco la capitale sudanese Khartoum e a devastare la storicamente martoriata regione del Darfur. A distanza di quasi due mesi dallo scoppio, il 15 aprile, della guerra civile in Sudan né le truppe dell’esercito regolare, controllato dal regime di Abdel Fattah al-Buran, né le Rapid Support Forces guidate dal generale Mohamed Dagalo detto Hemedti sembrano intenzionate a deporre le armi. La violenza degli scontri è tornata a crescere significativamente domenica 4 giugno, allo scadere del cessate il fuoco che era in vigore dal 22 maggio, seppur ripetutamente violato da entrambe le parti. Secondo i dati dell’Unhcr nel giro di sette settimane questo conflitto ha provocato un esodo di 385.371 rifugiati e oltre 1,2 milioni di sfollati interni al Paese, mentre le persone bisognose di aiuto umanitario sono cresciute da 16 milioni
prima della guerra a 25 milioni. Una fonte, che chiede di restare anonima, descrive le condizioni di chi scappa e le loro vie di fuga: «Al confine con l’Egitto si è creato un tappo, per cui tantissimi ora fanno fatica a passare. Le autorità egiziane ne fanno una questione etnica: hanno lasciato passare gli europei quando c’erano, qualche sudanese arabo che aveva i documenti in ordine, ma molto meno i neri, soprattutto sud-sudanesi ed eritrei. Il confine con l’Etiopia è difficile da passare, mentre molto più permeabili sono le frontiere con il Sud Sudan e il Ciad, in cui cercano rifugio soprattutto i profughi del Darfur. Da Port Sudan fino a una settimana fa partivano voli e navi per Jeddah, però ora sono stati sospesi perché in Arabia Saudita si avvicina il pellegrinaggio per La Mecca, quindi lì vogliono solo pellegrini, non rifugiati. I profughi che erano già arrivati a Port Sudan si erano accampati in migliaia nel porto, sulla strada del lungomare che era un po’ la “zona in”. Negli ultimi giorni le persone che non sono riuscite a uscire dal Paese sono state spostate nelle periferie della città, soprattutto a Philip, un quartiere abbastanza povero». Proprio questa città, affacciata sul Mar Rosso e distante 500 chilometri dalla capitale, è diventata l’hub per la distribuzione di aiuti umanitari in Sudan e il luogo in cui politici e diplomatici in fuga da Khartoum, oltre alla povera gente, si sono rifugiati. Eppure, segnala l’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) a Reuters, le procedure burocratiche per far arrivare aiuti umanitari sono ostacolate dalla stessa burocrazia sudanese. La concessione dei visti per far entrare i cooperanti in Sudan procede a rilento. Il 27 maggio secondo l’Ocha erano 40 le richieste avanzate che non avevano ancora ricevuto risposta dalle ambasciate del Paese. Per i volontari che sono già in Sudan lavorare non è più semplice, perché muoversi per raggiungere i luoghi dove le necessità sono maggiori spesso è vietato o pericoloso. Complice il danneggiamento di impianti cruciali come quelli per la depurazione dell’acqua in una terra desertica in cui già di per sé scarseggia, le condizioni umanitarie in Sudan continuano a deteriorarsi. Sul versante internazionale la situazione non è molto più incoraggiante: i dialoghi iniziati il 6 maggio a Jeddah tra il regime sudanese e le Rsf, che vedono impegnati come mediatori gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita sono stati sospesi. L’obiettivo era trovare un accordo per un solido cessate il fuoco e per garantire l’accesso umanitario, ma i colloqui sono stati abbandonati dalla delegazione dell’esercito regolare il 31 maggio. Il regime ha motivato la scelta accusando le Rsf di aver violato l’estensione della tregua concordata appena due giorni prima, il 29 maggio. La nostra fonte commenta preoccupata questi sviluppi, che sembrano allontanare una soluzione negoziata del conflitto: «Il fatto che l’esercito si sia tirato fuori dai dialoghi preoccupa, perché fa pensare che forse si stia preparando a un’ulteriore escalation nell’uso della violenza. In questi ultimi giorni sembra che l’esercito abbia guadagnato postazioni importanti a Khartoum, attraverso le quali sarebbero in grado di isolare le Rsf, interrompendo la linea di rifornimenti che provenivano da ovest, cioè dal Darfur. Ma qui veramente bisogna usare il condizionale, perché la situazione non è molto chiara. Entrambe le parti sono molto armate e sembra chiaro che non si fermeranno finché una delle due sarà stremata e sconfitta». Secondo la nostra fonte, sullo sfondo di questo scenario già tragico incombe un’altra minaccia: «Spero che non si scatenino le lotte tribali. Il problema degli scontri tra clan a Port Sudan, così come in tutta la zona a ridosso dell’Eritrea e nella zona di Kosti nel sud, è che ci sono tribù locali che erano state armate dal regime di Bashir. In questo contesto di disordine e mancanza di un governo, oltre che di carenza di risorse e acqua, a qualcuno può venire la “voglia” di regolare qualche conto. Quando la gente ha fame, se ha i fucili a portata di mano comincia a usarli».

I saccheggi riguardano anche il cibo

L’agenzia Onu World Food Programme (Wfp) ha riportato il saccheggio di uno degli hub logistici dell’agenzia nel Sudan
centro-meridionale. L’attacco ai magazzini a El Obeid mette a rischio l’assistenza alimentare per 4,4 milioni di persone colpite dal conflitto. «L’impatto di questo attacco si ripercuoterà su milioni di persone. Rapporti iniziali indicano nel
saccheggio sono stati sottratti scorte di cibo e alimenti nutritivi, veicoli, carburante e generatori – si legge in un comunicato – Wfp ha finora registrato perdite stimate in oltre 60 milioni di dollari da quando sono scoppiate le violenze. L’insicurezza alimentare arriverebbe a livelli record, con oltre 19 milioni di persone colpite».

Francesca Campanini

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