Perché le Ong hanno “scelto” il Mediterraneo? “È lo spazio umanitario perfetto”

Sono da 5 anni in mare ma se ne parla all'infinito: eroi, scafisti o cos'altro? Ma come sono nate le Ong del mare? In cosa divergono (e litigano)? Perché nel Mediterraneo? Cusumano (Uni Leiden): “Il mare internazionale è lo spazio umanitario perfetto. A terra ci sono i problemi, lì esiste solo il giusto e lo sbagliato”

Perché le Ong hanno “scelto” il Mediterraneo? “È lo spazio umanitario perfetto”

MILANO – Vanno in mare, fanno i soccorsi al posto degli Stati europei e vengono sequestrate, multate e accusate di favoreggiamento dell'immigrazione, quando non di peggio. Capita ormai con cadenza bisettimanale. E ogni settimana la polemica politica, e non solo, ritorna identica a se stessa: si tratta di eroici salvatori di vite umane che si oppongono alla barbarie europea che usa l'omissione di soccorso come deterrente per i flussi migratori dall'Africa e dal Medio Oriente? Oppure sono “vice scafisti” (Salvini docet, ma non solo il leader leghista), invasori che non rispettano la sovranità della nazioni spinti da forze occulte?

Sono le ong del Mediterraneo, le organizzazioni non governative senza scopo di lucro di cui si discute su base quotidiana. Come si rapporteranno al nuovo e traballante corso della politica europea, in attesa del vertice di lunedì 23 settembre a Malta per (ri)elaborare una strategia continentale sui flussi, oggi è un'incognita. Di certo sono diventate talmente note da far sembrare la loro presenza a sud della Sicilia una costante che non conosce tempo. Eppure lì, nel “Mare che ci unisce” (come da titolo del libro della storica Ilaria Tremolada, che si occupa delle relazioni energetiche Italia-Libia, riprendendo una definizione di Aldo Moro del 1971), la prima organizzazione ha messo piede soltanto nell'inverno del 2014. Poco più di cinque anni fa. Di loro si sono occupati tre diversi governi italiani, giornalisti e blogger di ogni estrazione, diverse commissioni parlamentari (Difesa del Senato, Comitato Schengen), uomini della Guardia di Finanza e militari di diverse nazionalità (italiana, libica, le marine europee) oltre a cinque procure siciliane (Catania, Ragusa, Trapani, Palermo e Agrigento).
Nella narrazione comune – sia pro che contro – le ong sono un agglomerato unico. Ma solo in un Paese in cui la discussione pubblica ha raggiunto livelli stantii, un'organizzazione medica con focus sull'infanzia come Save The Children e che esiste dal 1919 e la piattaforma della società civile Mediterranea Saving Humans, che ha visto la luce nel 2018, possono essere considerate appartenenti a un blocco informe e monolitico. Non solo: chi conosce bene quell'ambiente sa che fra le stesse ong non è sempre corso buon sangue. A compattarle in un fronte unitario (che unitario in realtà non è) hanno contribuito più le accuse mosse da governi e autorità europee in questi anni - come quelle di essere in qualche modo colluse con i trafficanti di uomini o di fungere da pull factor (fattore di attrazione) - che non una vera e propria finalità di intenti o condivisione di valori assoluti fra le ong stesse.  Del resto, come vedremo, sia le organizzazioni – i loro bilanci, gli assetti e le dotazioni tecnologiche, le idee che professano, le strategie legali e operative che hanno messo in campo – quanto il motivo e le modalità con cui si sono trovate nel mar Mediterraneo, sono differenti. Partiamo però proprio dal secondo punto: perché il mar Mediterraneo e non altrove sul pianeta?

Perché il Mediterraneo? “È lo spazio umanitario perfetto”

È anche una delle polemiche più datate. Sintetizzabile rozzamente nella frase “perché non li aiutate a casa loro?”. La risposta più banale è che la domanda viene posta in maniera sbagliata. Organizzazioni umanitarie si trovano infatti in ogni angolo fra i più sperduti del mondo, inclusi quelli “a casa loro”, sotto nomi, parole d'ordine e vessilli differenti. Vero è un fatto tuttavia: dal 2014 al 2019, il Mediterraneo centrale – quel tratto di mare erroneamente definito dalle cronache Canale di Sicilia e che collega Libia e Tunisia con Malta e Italia – ha visto nascere e operare, ex novo o meno, ben 11 diverse organizzazioni: Medici senza Frontiere (con quattro navi, l'ultima la Ocean Viking, gestite dalle sue filiali di Roma, Bruxelles e Barcellona, ognuna dotata di parziale autonomia strategica e operativa); Save The Children, che è stata l'unica organizzazione a imbarcare uomini di una compagnia di sicurezza privata marittima, gli stessi dalle cui segnalazioni è partita la prima inchiesta della magistratura italiana a Trapani; i maltesi del Moas, con equipaggi formati da ex uomini della marina militare de La Valletta e in collaborazione medica con Msf, Emergency per un breve periodo e Croce rossa; Sea Watch, la prima delle tedesche, a bordo della quale si sono formati quasi tutti i volontari che hanno poi dato vita per imitazione alle altre ong teutoniche, e ha operato con tre navi differenti di cui una utilizzata nel Mar Egeo; Sea Eye; Proactiva, spin off di una società privata di salvataggio marittimo spagnola; i giovani berlinesi della Jugend Rettet; Sos Mediterranée (assieme a Msf); Lifeboat; Mission Lifeline e infine la piattaforma italiana di Mediterranea. Questo eterogeneo “esercito del Sar” (Search and Rescue, ricerca e soccorso) in totale ha utilizzato 20 assetti navali – differenti per caratteristiche tecniche, capacità e stazza – oltre a droni, velivoli e decine fra volontari, marinai, uomini delle società private di sicurezza e personale stipendiato delle organizzazioni stesse.
Uno sforzo umanitario quasi senza precedenti. Che ha visto un'impennata esponenziale degli attori in gioco tra la fine del 2014 e l'inizio del 2016. A seguito della chiusura dell'operazione Mare Nostrum della Marina italiana e quando si è capito chiaramente che le missioni varate dall'Europa per “sostituirla” (Frontex plus, Triton e Sophia) non avevano alcuna intenzione né il mandato di fare ricerca e soccorso di naufraghi come attività principale.

Il mar Mediterraneo, "lo spazio umanitario perfetto”

Fra le ragioni dietro questo impegno umanitario vigoroso c'è un drammatico dato di fatto a cui seguono una serie di riflessioni. Il primo, cruciale, è che secondo varie stime di agenzie internazionali, negli ultimi 20 anni nel Mediterraneo sono morti fra i 30 e i 40 mila migranti. Una strage che, alle porte d'Europa, non si vedeva di tale entità dal tempo dei conflitti balcanici e che non poteva far altro che attirare l'attenzione e lo sdegno di associazioni umanitarie e, in parte, delle opinioni pubbliche continentali.
Il secondo motivo è più sottile: “Il mar Mediterraneo è lo spazio umanitario perfetto”. Questa la definizione che ne dà Eugenio Cusumano, professore e ricercatore in Olanda all'Università di Leiden, studioso del ruolo degli attori non governativi durante le crisi umanitarie e belliche. Cusumano, che ha in pubblicazione un testo accademico sulle ong oltre a un position paper assieme a Matteo Villa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) che con gli strumenti della statistica affronta il tema del “pull factor”, il fattore di attrazione e la sua correlazione con l'intensità dei movimenti migratori, è un ricercatore che ha condotto una serie di rari quanto importanti studi su “l'umanitarismo in mare”. Lo ha fatto anche sul campo passando alcune settimane a bordo della nave Sea Watch 2 nel 2016 e conducendo negli anni decine di interviste con uomini delle no profit e militari di Marina e Guardia costiera italiana durante i “Forum ShadeMed”: una serie di tavole rotonde organizzate dalla missione europea di contrasto ai trafficanti, Eunavfor Med-Operazione Sophia. “La sfera umanitaria – spiega Cusumano – è l'attività all'interno della quale un'organizzazione può svolgere il proprio ruolo nel rispetto del principio di neutralità: il mare internazionale, in questo senso, è il luogo perfetto. Più della Siria, della Libia, dello Yemen. Perché è uno spazio senza sovranità. A terra è diverso: devi negoziare anche il solo accesso al terreno, ci possono essere Paesi in cui è necessario pagare tangenti ai funzionari locali, oppure garantirsi la sicurezza con guardie armate e senza toccare gli interessi delle milizie. Tutto ciò nel Mediterraneo non è necessario o lo è in maniera minore perché, senza voler sminuire l'apporto fondamentale dato da queste organizzazioni negli anni, il soccorso in mare è un'attività molto più semplice rispetto a gestire un ospedale in Sierra Leone”.
"Allo stesso tempo – continua il ricercatore che nei prossimi mesi si sposterà dall'Olanda all'Istituto Universitario Europeo di Firenze –, il Sar è un'attività eticamente irreprensibile: o si salva una vita umana o la si lascia affogare, senza zone grige. In mare esiste solo il giusto e lo sbagliato. Mentre a terra c'è la politica: dove operando rafforzi certe autorità statuali, e non, invece che altre; sulla terra ferma pensi di aiutare le economie locali e magari le stai condannando al sottosviluppo per dipendenza”. “Inoltre – prosegue – quella del salvataggio è un'attività umanitaria che funziona sul piano mediatico e del fundraising. O almeno ha funzionato fino a quando non è intervenuta una campagna di delegittimazione senza precedenti che infatti ha ottenuto parziali risultati allontanando diverse ong dal Mediterraneo. Però in linea di massima funziona anche nelle donazioni, al contrario del cosiddetto “aiutiamoli a casa loro” di cui si parla molto, ma che alle opinioni pubbliche occidentali non interessa perché è meno visibile”.

Francesco Floris

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)