Perù ed Ecuador: il petrolio avvelena terre e popolazioni indigene. Nel silenzio generale, si leva la voce della Chiesa

È invisibile il petrolio che, costantemente, da anni, fuoriesce dalle tubature che trasportano il greggio dai giacimenti della zona amazzonica. Accade nelle regioni interne del Perù, ma anche nel vicino Ecuador. In questo caso, il petrolio non si diffonde in un oceano, ma nei fiumi e nei terreni, rovinando la vita agli indigeni, che vengono letteralmente avvelenati. “Gran parte degli sversamenti di petrolio avviene in zona amazzonica, nel silenzio generale. Nel Paese, in 24 anni, ci sono stati oltre mille sversamenti, negli ultimi 4 anni è finita sul terreno o in acqua una quantità di oltre 87mila barili di petrolio. I più colpiti sono i popoli indigeni, è una cosa scandalosa”, spiega Miguel Lévano Muñoz, referente dei programmi dell’Oxfam in Perù

Perù ed Ecuador: il petrolio avvelena terre e popolazioni indigene. Nel silenzio generale, si leva la voce della Chiesa

Tutto il mondo l’ha vista. La macchia di petrolio – 12mila barili -, fuoriuscito qualche mese fa dalla raffineria della Repsol a Ventanilla, non lontano da Lima, in Perù, ha causato una catastrofe ecologica di enormi dimensioni. Anche l’Organizzazione degli Stati americani si è occupata del disastro, che ha inquinato, oltre al mare, chilometri di coste, compromettendo la vita dei pescatori della zona.

È, invece, invisibile il petrolio che, costantemente, da anni, fuoriesce dalle tubature che trasportano il greggio dai giacimenti della zona amazzonica.

Accade nelle regioni interne del Perù, ma anche nel vicino Ecuador. In questo caso, il petrolio non si diffonde in un oceano, ma nei fiumi e nei terreni, rovinando la vita agli indigeni, che vengono letteralmente avvelenati. “Vengono maltrattati con sversamenti peggiori di quelli che abbiamo vissuto sulle coste peruviane”, ha detto in occasione del secondo anniversario dell’esortazione apostolica “Querida Amazonia” l’arcivescovo di Lima, mons. Carlos Castillo.

E i numeri lo confermano. “È proprio così, gran parte degli sversamenti di petrolio avviene in zona amazzonica, nel silenzio generale. Nel Paese, in 24 anni, ci sono stati oltre mille sversamenti, e negli ultimi 4 anni è finita sul terreno o in acqua una quantità di oltre 87mila barili di petrolio.

I più colpiti sono i popoli indigeni, è una cosa scandalosa”.

Ad affermarlo è Miguel Lévano Muñoz, referente dei programmi dell’Oxfam in Perù e coordinatore del gruppo di lavoro sugli sversamenti petroliferi del Coordinamento nazionale per i diritti umani.

Tubature obsolete colabrodo nell’Amazzonia peruviana. Ad alzare la voce, in Perù come in Ecuador, è soltanto la Chiesa: vescovi e missionari, a fianco delle popolazioni indigene. Particolarmente grave l’episodio che si è verificato nella regione di Loreto, lo scorso 22 gennaio, negli stessi giorni dello sversamento sul Pacifico: la rottura dell’oleodotto nordperuviano gestito da Petroperú, nei pressi del villaggio di Nueva Alianza, abitato perlopiù da indigeni delle etnie kukama e yurimaguas. Altri sversamenti si sono verificati nelle ultime settimane, l’ultimo dei quali, in maggio, nel distretto di Barranca, in provincia di Datem del Marañón.

I continui episodi, assieme alla minimizzazione di quanto accaduto da parte di Petroperú, provocano l’indignazione del vescovo del vicariato apostolico di Iquitos, mons. Miguel Cadenas, agostiniano come gran parte dei missionari della zona,

che spiega al Sir: “L’attività petrolifera, nella regione di Loreto, compie cinquant’anni, gli sversamenti sono stati un’infinità e nessuno ha fatto nulla. L’oleodotto è obsoleto, le tubature dovrebbero essere cambiate. Solo la piccola comunità di Nueva Alianza, situata alla confluenza del río Urituyacu sul río Marañón, uno dei rami destinati a costituire il rio delle Amazzoni, ha assistito negli ultimi anni a sei grandi sversamenti, il più grave dei quali è accaduto nel 2016”.

Petroperú, per anni, si è affidata a risorse locali per gestire le tubature, spiega ancora il vescovo, e il risultato era che spesso “le strutture venivano danneggiate dagli stessi controllori, per ricevere soldi per la successiva riparazione”. Poi, nel 2017, la politica della società petrolifera è cambiata, ma la gestione resta deficitaria. Accusa mons. Cadenas: “L’impatto sull’ambiente di queste situazioni è brutale, la popolazione locale spesso è priva di acqua potabile, c’è chi beve acqua contaminata”.

Le denunce della Chiesa non vengono ascoltate o sono minimizzate.

“La situazione è simile anche in altri vicariati apostolici dell’Amazzonia – prosegue il vicario apostolico -. Sarebbe necessario un maggior lavoro di coordinamento tra noi, dobbiamo fare autocritica. Sono preoccupato, perché tra le popolazioni locali potrebbe da un momento all’altro esplodere la violenza”.

Ecuador, mille fuoriuscite in dieci anni. Ci spostiamo in Ecuador, nel vicariato apostolico di Aguarico (province di Orellana e Sucumbíos). Anche qui c’è un fiume, il rio Coca, affluente del rio Napo, che a sua volta confluisce nel rio delle Amazzoni. Anche qui ci sono continue fuoriuscite di greggio. E anche qui c’è un vescovo che lancia l’allarme, inascoltato dalle autorità: mons. José Adalberto Jiménez Mendoza, cappuccino.

“Stiamo parlando – dice – di circa mille fuoriuscite negli ultimi dieci anni, anche se c’è la gara, tra le istituzioni, a rendere invisibile il fenomeno.

Due anni fa ci fu l’episodio più grave, con uno sversamento stimato di 30mila barili, anche se le autorità ne hanno riconosciuti solo 15.600. Solitamente, episodi di questo tipo vengono giustificati affermando che si tratta di fatalità, come la caduta di una frana mentre si stavano riparando le tubazioni, nel caso più recente, per il quale già sono fuoriusciti 6-7mila barili. In realtà, si tratta di irresponsabilità, dovuta soprattutto al fatto che molti impianti sono stati costruiti in zone vulcaniche, instabili”.

I danni ambientali ed economici sono gravissimi:

“L’acqua è inquinata, i terreni stessi perdono la loro capacità produttiva. Sono a rischio specie come i bufeos, i famosi delfini rosa d’acqua dolce”.

Per non parlare della riparazione, chiesta anche, in una recente lettera, dalla Repam , la Rete ecclesiale panamazzonica: “I contadini e gli indigeni si vedono recapitare 8 litri d’acqua, un po’ di viveri, qualche dollaro. Il tutto nel silenzio complice delle multinazionali, del Governo, ma anche degli enti locali”.

Le fuoriuscite non sono l’unica forma di inquinamento. “I pozzi petroliferi, nella provincia di Sucumbíos, continuano a bruciare”, nonostante la storica sentenza di un anno fa, quando la Camera multicompetente della Corte provinciale di giustizia di Sucumbíos aveva accolto il ricorso firmato da 9 ragazze e si era pronunciata a favore dell’azione giudiziaria di protezione, intrapresa con l’obiettivo di eliminare il “gas flaring” nell’industria petrolifera della zona. Si tratta di una pratica attraverso la quale viene bruciato il gas naturale che fuoriesce assieme al petrolio dai pozzi. “Una vittoria giudiziaria, ma gli effetti, alla luce della sentenza, si vedranno a partire dal 2030”, conclude sconsolato mons. Jiménez, che denuncia anche l’aumento di miniere legali e illegali a cielo aperto. “E su tutto questo, l’unica voce che si alza è quella del vicariato apostolico.

Su questo, noi vescovi non possiamo essere neutrali”.

*giornalista de “La Vita del Popolo”

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Fonte: Sir