Sudan, ora il crollo della diga di Arbaat si aggiunge alla guerra
Le piogge torrenziali e anomale di questi giorni, abbattutesi su una parte del Paese, hanno fatto crollare la diga a nord-ovest di Port Sudan. Oltre 130 vittime sinora accertate, interi villaggi rasi al suolo, migliaia di famiglie senza casa e senza campi da coltivare. Il comboniano padre Filippo Ivardi fornisce alcuni elementi per comprende il dramma in cui si dibatte la popolazione
Laddove non arriva la guerra in corso in Sudan a rendere impossibile la vita a milioni di persone, sono i cambiamenti climatici (e la fragilità delle infrastrutture) a provocare danni e vittime. Le piogge torrenziali e anomale di questi giorni, abbattutesi sulle aree settentrionali del Sudan, hanno fatto crollare la diga di Arbaat, 38 km a nord-ovest di Port Sudan, città al riparo dal conflitto.
Senza case né campi. La furia delle acque ha ucciso un centinaio di persone e ne ha disperse altrettante. Circa venti villaggi adiacenti alla diga sono stati spazzati via dalla violenza delle acque senza più argini, che hanno trascinato nel fango le fragili abitazioni. Sono circa 12mila le case completamente collassate e 11mila quelle danneggiate, stando ai dati giunti dal ministero della Sanità sudanese.
Le comunità rurali restano senza campi, case e riparo.
“L’area in questo momento è irriconoscibile”, ha scritto in un messaggio WhatsApp, indirizzato al suo staff, Omar Eissa Haroun, a capo dell’autorità idrica per lo Stato del Mar Rosso. Anche le reti elettriche sono distrutte, per cui i superstiti e i soccorritori annaspano in un completo isolamento.
Meteo devastante. “Questa diga era la principale fonte d’acqua dolce per tutta la regione – spiega al telefono padre Filippo Ivardi, comboniano, per molti anni missionario in Ciad e oggi in Italia –. Qui gli eventi meteo sono sempre più devastanti ed estremi. È vero che quella attuale è la stagione delle piogge (e ne abbiamo sempre avute nella zona tra Sudan e Ciad), ma non si è mai arrivati a tanta distruzione. Sono enormi quantità d’acqua in un lasso di tempo sempre più ristretto”. Le notizie iniziali confermate da Ocha, l’Agenzia delle Nazioni Unite per le emergenze umanitarie, parlavano di 30 morti e migliaia di dispersi nell’area di Port Sudan, ma i numeri sono rapidamente cresciuti. Ammonterebbero a 132 le vittime, secondo quanto scrive nell’ultima nota il ministero.
Colpite 31mila famiglie. “Dieci è il numero complessivo di Stati (il Sudan è amministrativamente suddiviso in 26 Stati detti wilayat, ndr) coinvolti dal crollo della diga, mentre il numero delle famiglie affette dalla tragedia e in emergenza è di 31mila”, si legge nel comunicato governativo.
Ma chi porterà soccorso ai superstiti in un contesto tanto fragile aggravato dalla guerra in corso?
Non esiste un vero e proprio Stato funzionante in Sudan, poiché da quasi un anno e mezzo (esattamente dal 15 aprile 2023) il Paese del Sahel è in balia di una guerra civile tra esercito regolare e paramilitari che ha già provocato l’incredibile cifra di 10,7 milioni di dislocati interni. I morti per la guerra sono decine di migliaia. “La scarsa manutenzione dovuta alla guerra è tra le ragioni della fragilità della diga – ipotizza ancora Ivardi –. Ma quello che accade da 500 giorni è una vera e propria catastrofe umanitaria soprattutto nel Darfur, dove peraltro il problema climatico è inverso e cioè c’è una forte carestia, scarse piogge e nessuno che possa occuparsi dei raccolti”.
Conflitto senza fine. Il problema reale in Sudan è che, nonostante i tavoli negoziali in corso, “non si trova un accordo per la fine delle ostilità – dice il comboniano –. Io ritengo che se le potenze impegnate nella mediazione (Arabia Saudita e Usa al tavolo di Ginevra, ndr) lo volessero davvero, i due generali in guerra non potrebbero far altro che smettere di combattersi”. Il Darfur è la regione più devastata dal conflitto, mentre Port Sudan, dove è crollata la diga il 25 agosto, era rimasta finora al riparo dai danni della guerra. Le città principali del Sudan, proprio per via del conflitto erano state evacuate, e persino i missionari comboniani hanno dovuto abbandonare la capitale Khartoum ma non Port Sudan, relativamente più calma di altre regioni. “Stiamo tenendo dei corsi di medicina palliativa per infermiere, per assistere i malati terminali”, ci raccontava a giugno scorso padre Salvatore Marrone, comboniano a Port Sudan. Oggi anche quella flebile speranza di ripresa è stata colpita da un evento climatico che lascia senza parole.
Ilaria De Bonis (*)
(*) redazione “Popoli e Missione”