Elogio alle videochiamate: poter dire "come stai?" e ricevere una risposta immediata

In questi giorni di isolamento sono stato nell’appartamento di un mio amico che è appena andato a convivere con la sua ragazza; mi sono emozionato nel vedere la figlia, nata appena un mese fa, di un amico che conosco da più di 20 anni e che vive in Toscana; ho visto un’amica condurre un telegiornale in prima serata dopo tanti sacrifici; ho visto la pancia della ragazza di mio cugino all’ottavo mese di gravidanza. Il tutto stando a casa. 

Elogio alle videochiamate: poter dire "come stai?" e ricevere una risposta immediata

Non mi nascondo dietro a un dito: su WhatsApp ho diversi gruppi silenziati, ho eliminato la doppia spunta blu perché non voglio sentirmi in dovere di rispondere immediatamente dopo aver letto il messaggio, e se posso, circumnavigo, fin dove è possibile, l’impegno di fare videochiamate collettive. Ho i miei tempi e la mia asocialità che spesso giustifico col fatto di passare già tante ore, per lavoro, appresso al telefono e/o ai vari social.

Però è da quattro anni, da quando ho lasciato Bari per trasferirmi a Padova, che a mia madre o ai miei nonni materni (e, secondo l’occasione, anche a vari parenti, amici) che dico: «Dai, prova a immaginare senza WhatsApp o senza Skype come avremmo vissuto la distanza?». Soprattutto ai miei genitori lo sto ripetendo come un mantra in quest’ultimo mese: nella loro prospettiva si ritrovano con un figlio nella provincia di Padova e con una figlia a Lecco. Veneto e Lombardia, o meglio, nelle regioni dove si sono manifestati i primi casi di positività al Covid-19 e con tutto il conseguente precipitare che viviamo ogni giorno.

A proposito di tecnologia, anche se non me lo hanno mai detto, sono certo che papà e mamma tramite Google Maps abbiano tracciato la distanza tra Padova e Vo’ Euganeo e tra Lecco e prima Codogno e poi Bergamo. Quanto siamo vicino o lontani dai focolai?

Così mi ritrovo pian piano a smussare la spigolosità del mio essere asociale. Certo, in quotidiani giorni di non isolamento abbiamo le nostre abitudini: messaggio di saluto quando ci svegliamo, mia madre che ci ricorda i compleanni di cugini e zii, ci aggiorniamo su impegni di lavoro o di vita, cosa cuciniamo, che film vediamo al cinema, prima di augurarci reciprocamente la “buonanotte”. Nel gruppo “famiglia” ci passiamo foto, messaggi audio e anche dei video, meno frequente è invece telefonarci o videochiamarci.

Ora ci ritagliamo il tempo per assaporare la calma, senza procrastinare: videotelefonate ogni fine settimana che durano mezz’ora, anche 45 minuti. Si sta assieme, possiamo guardarci così, per esempio, vedono la mia barba scura arretrare in trincea per lasciar avanzare, invece, la barba bianca.

Un elogio alla comunicazione tecnologica. Che non è solo un rincuorante gesto di difesa contro questo periodo, ma è lo sguardo davvero (lo dico con sincerità) positivo di un ragazzo che si sente fortunato non solo per i mezzi che ha a disposizione, ma anche qualcuno “dall’altro lato della cornetta” (avremmo detto negli anni Novanta) con cui parlare: genitori, nonni, sorella, zii e anche gli amici. In questi giorni di isolamento sono stato nell’appartamento di un mio amico che è appena andato a convivere con la sua ragazza; mi sono emozionato nel vedere la figlia, nata appena un mese fa, di un amico che conosco da più di 20 anni e che vive in Toscana; ho visto un’amica condurre un telegiornale in prima serata dopo tanti sacrifici; ho bevuto una birra assieme ad altre tredici persone giocando a poker e ridendo e passando tre ore spensierati; ho visto la pancia della ragazza di mio cugino all’ottavo mese di gravidanza.

Soprattutto posso sapere quasi all’istante l’umore o la salute di tutti. Che è l’aspetto più importante. Anche di amici che vivono a mille metri da casa.

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