Farsi uomo, cosa avrà significato?

Provocati dai batteri "spaziali". Si è fatto come noi, pur rimanendo se stesso: Dio. Tutto questo per amore.

Farsi uomo, cosa avrà significato?

Tra le tante, importanti notizie che sono arrivate dal mondo dell’esplorazione spaziale e della ricerca astrofisica nelle settimane natalizie, c’è veramente l’imbarazzo della scelta: le foto di Ultima Thule, il più lontano corpo celeste esplorato dall’uomo, simile a quei mattoni che hanno costituito i pianeti del sistema solare; l’esplorazione sul campo, per la prima volta nella storia, della faccia nascosta della Luna; la scoperta di misteriosi segnali radio provenienti da una lontanissima galassia, ancora tutti da comprendere.

Una notizia, passata un po’ in sordina, mi ha però incuriosita proprio in relazione al tempo di Natale appena terminato. Uno studio condotto sui batteri della Stazione spaziale internazionale ha messo in luce come questi abbiano reagito, nella situazione di forte stress ambientale che la microgravità impone, sviluppando geni diversi rispetto ai loro corrispettivi sulla terra. La notizia sottolinea il fatto che questi batteri sono “rimasti se stessi” pur dovendosi adattare alle condizioni estreme della vita nello spazio. 

La Stazione spaziale internazionale (Iss) è un ambiente adibito alla ricerca scientifica che orbita a una altezza tra i 330 e i 420 chilomentri con una velocità di circa 27.600 km/h. È il risultato di un progetto di collaborazione di diverse agenzie spaziali, tra cui la Nasa, la Roscosmos russa e l’Agenzia spaziale europea. Ha compiuto da poco vent'anni ed è abitata in modo continuativo da equipaggi umani fin dal 2000. Il suo moto è costantemente in caduta libera verso la terra, facendole sperimentare così la condizione di microgravità, o assenza di peso. Ciò che sembra una sensazione di grande libertà, nel vedere gli astronauti fluttuare, in realtà comporta una serie di problemi e adattamenti corporei che si sommano alla difficile sfida di ricreare un ambiente vivibile, autosufficiente, chiuso, isolato e protetto rispetto allo spazio esterno, assolutamente incompatibile con la vita. Ciò vale non solo per la vita umana, ma anche per quella vegetale, animale e a quanto pare batterica. Perché questa notizia mi ha incuriosita, associata al tempo di Natale?

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Rimango ogni volta meravigliata di fronte alla capacità del nostro corpo, e della vita in generale, di adattarsi in situazioni difficili: se penso che ogni adattamento corporeo comporta anche la necessità di riorganizzare il modo di pensare e di affrontare le sfide di ogni giorno, mi rendo conto di quante risorse siamo in grado di mettere in campo pur di mantenerci in vita, anche a costo di cambiamenti radicali.

Chissà cosa avrà significato, per Dio, farsi uomo, immergendosi in questo mondo che chiede un cambiamento continuo, corporeo, mentale, culturale. Un mondo che lo ha costretto a rimanere nella genetica, dentro a quegli stessi meccanismi di cui studiamo gli adattamenti e le evoluzioni, e che gli avranno chiesto, nei passaggi fondamentali della vita, anche un cambiamento di mentalità, pur “rimanendo se stesso”.

Immagino la sua onnipotenza, eternità, onniscienza rinchiusi in un corpo limitato, fragile e delicato, dentro a questo piccolo mondo sospeso nel vuoto, una microbolla di vita. Lo immagino sperimentare la stessa fatica evolutiva che scopriamo in organismi così piccoli e semplici come i batteri, e mi chiedo quanto amore c’è voluto per assumersi il rischio di imparare e “divinizzare” la vita in tutto e per tutto. Un’intuizione piccola che mi immerge in un mistero molto più grande, quello dell’incarnazione, che non finirà mai di stupirmi e di interrogarmi.

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