Edificare il bene di tutti. Persuadere più che convincere
Per non accontentarsi di ciò che già si sa e aprirsi a una comune ricerca della verità
Le lezioni di italiano sono arrivate all’ultimo giro di boa e dopo l’analisi del testo narrativo e di quello poetico, è arrivata la volta del testo argomentativo. «Luigi, perché si scrive un testo argomentativo?». «Per dire quello che si pensa». «Fuochino. Prova a essere più preciso… pensa a un dibattito in tv». «Ok, lo so: per chiudere la bocca all’avversario!».
A parte lo stile brutale, lo studente non sembra lontano dal vero, almeno stando al libro di testo, il quale indica quale risposta il verbo “convincere”. Un verbo che etimologicamente esprime proprio la possibilità di costringere qualcuno ad ammettere qualcosa, con la forza dei propri argomenti.
L’idea di insegnare una tecnica efficace per vincere le discussioni, zittendo gli altri interlocutori, un po’ m’inquieta. Allora si risveglia in me l’obiettore di coscienza e provo a sostituire al bellicoso convincere il nonviolento persuadere. Non è una questione di eleganza stilistica, ma di contenuto e di prospettiva.
Convincere rischia di tradursi in un portare, in modo motivato, l’altro a pensarla come me. L’atto di persuadere, invece, avvia un processo che parte dal non accontentarsi di ciò che già si sa, per aprirsi a una comune ricerca della verità. Nel primo caso la verità viene fatta coincidere con le mie idee, nel secondo la verità è più grande di qualsiasi singola idea: diviene una realtà che ci comprende e sempre ci supera.
Oggi diventa urgente tradurre questo discorso nell’ambito della politica. Spesso il dibattito politico si riduce al solo tentativo, più o meno ben argomentato, di affermare le proprie posizioni, delegittimando quelle altrui; c’è il serio rischio che qualcuno si convinca che il bene comune coincida con la semplice realizzazione delle proprie proposte. Se poi questo qualcuno prende la maggioranza dei consensi o gli capita di andare al governo, sarà fortemente tentato di ignorare il dissenso e di trattare la minoranza come una fastidiosa presenza che deve tollerare, visto che ahimè siamo ancora in democrazia. Disgraziatamente questa logica del “chi vince fa (e disfa) quello che vuole” non sembra del tutto aliena nei discorsi e nella prassi della politica odierna.
Per fortuna questa logica non fu applicata dai Padri costituenti, altrimenti non avremmo avuto quel capolavoro che è la nostra Costituzione. Alla sua stesura, infatti, poterono concorrere tutte le famiglie ideali presenti nel paese e tutte rappresentate in Assemblea. Ognuna ha avuto la possibilità di dare il suo prezioso contributo, facendo così in modo che davvero venisse scritta la Carta di tutti, il patto nel quale ogni cittadino può pienamente riconoscersi.
Qualcuno dirà che allora si trattava di un momento particolare, nel quale si stavano gettando solide fondamenta alla nascente Repubblica. Ma forse oggi non stiamo in un altrettanto delicato crocevia della storia? Come negare la pressante necessità di concordare, ancora una volta insieme, i fondamenti del vivere civile e politico? Possiamo forse negare l’urgenza, in questo nuovo contesto, di ridefinire il significato delle parole: lavoro, ambiente, dignità umana, democrazia, solidarietà? Sono questioni, quelle in campo, troppo grandi e complesse per poter essere affrontate da un solo punto di vista, fosse anche quello maggioritario. Il rischio è di proporre soluzioni, che poi si rivelano risposte semplicistiche e di breve respiro, quindi pericolose. È tempo che si torni a una comunicazione non ostile, a un confronto non pregiudizialmente astioso tra le parti, perché si edifichi davvero il bene di tutti.