L'irruzione dell'oggi in classe. Condividiamo le nostre fragilità

Portare i programmi sulle piattaforme on line non basta. Serve umanità

L'irruzione dell'oggi in classe. Condividiamo le nostre fragilità

Metti insieme il buon Dante con un’adolescente fuori dal coro come Alberta e ti ritrovi l’equilibrio didattico a gambe all’aria. Videolezione sulla Divina Commedia, stile emergenza pandemia, su Farinata degli Uberti: tutto liscio, fino a che non arriviamo alla pena degli eretici, condannati a una visione temporanea del futuro, ma a una totale cecità sul presente.

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«Un po’ come noi che studiamo quello che è successo ieri, per prepararci ad affrontare il domani. Ma… e l’oggi? Con il suo Coronavirus e la gente chiusa in casa?». Il sasso sulla piccionaia fa il suo effetto e la tentazione di riciclare la giustificazione, in voga di questi tempi, «scusa, non ti sento, mi si è crashato Zoom…», è alta. E invece senti la necessità di fare silenzio, perché la provocazione di Alberta decanti e getti una luce nuova su quanto si sta quotidianamente vivendo, anche in questo particolare luogo di vita.

Davanti agli improvvisi e drammatici eventi che ci hanno travolto, la prima tentazione è stata e continua a essere quella di chiudersi in se stessi, cercando di reagire a quanto succede attaccandosi ostinatamente alle proprie convinzioni e abitudini. Come docente, le priorità mi sembravano essere la rimodulazione su altro contesto dello svolgimento delle programmazioni, valutazioni… esami. Senza accorgersi che la corsa a utilizzare altri strumenti e piattaforme digitali, per garantire il proseguo dell’ordinario cammino didattico, in qualche modo rischia di negare l’inedito, implicito nella nuova realtà.

Un tardare, più o meno consapevole, a capire che quella presente non è una parentesi che prima o poi passerà e ritorneremo alla normalità. Semplicemente perché non ci sarà una normalità a cui tornare. Tutto è in cambiamento. L’emotivo augurio che "tutto andrà bene", sta rapidamente raffreddandosi e si fa strada il presentimento che quando finalmente usciremo dalle nostre case dovremo anche fare i conti con macerie relazionali, sociali, economiche, politiche. Macerie, che in parte si saranno sedimentate dentro di noi.

E oggi? Prima o poi ci diranno che in aula non si torna. Gli alunni avvertono già il colpo: stare in casa è dura, perché non è sano rendere virtuale ogni relazione (matureranno il rigetto del video?); qualcuno di loro sente già i morsi della crisi economica perché non pochi genitori sono in stand by col lavoro, e chi già faceva fatica a lezione è facile perderlo per strada. Le famiglie sono stressate e istintivamente pronte a prendersela con qualcuno. Noi docenti siamo partiti in ordine sparso perché non c'è stato modo di concordare nulla, siamo isolati e rischiamo il burn out: da un lato per doversi inventare il lavoro, non sempre riconosciuto, e un po' perché siamo figli delle nostre abitudini, attese e pratiche scolastiche.

La soluzione non è certo subire. Ci si adatta e ci si aggiusta: il tanto per restare a galla e non affondare. Si tratta invece di osare il nuovo, con un’aggiunta di progettualità e creatività. Non so cosa voglia dire di preciso quello che ho appena scritto, ma so qual è il primo passo: imparare a condividere la comune fragilità, senza vergogna; pensare e sperimentare vie nuove, rischiando anche di fallire. L’importante è farlo insieme, coinvolgendo anche i ragazzi. Qualcuno di loro in questi giorni di emergenza, tra email e Whatsapp, manifesta ciò che prima era sottotraccia, ossia che è bello sapere di essere al centro della nostra attenzione, scoprire che semplicemente gli vogliamo bene. Forse nasce da qui una scuola più bella.

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