La forza dei simboli e della tradizione. La vigilanza e la custodia

L'esperienza umana non è pura astrazione, testa e cuore vanno sempre coniugati

La forza dei simboli e della tradizione. La vigilanza e la custodia

Analisi del testo poetico. La prova chiede: trova le figure simboliche presenti nella poesia e prova a spiegarle. Gaia alza la mano e sbotta: «Scusi prof, ma che senso ha questo esercizio? Se un simbolo lo spieghi, lo rovini!».

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La studio un attimo, voglio scoprire se ci sta prendendo in giro. Dal momento che non dà segni di ironia, rilancio: «In che senso lo rovini?». Ci pensa su e risponde: «Se il poeta ha scelto di comunicare coi simboli, è giusto rispettare il suo campo di gioco, non possiamo cambiarlo. Spiegare significa fare un ragionamento, mentre il simbolo è un’immagine che parla». A questo punto non è importante se la risposta di Gaia è completa, ma ringraziarla per averci ricordato il valore e la forza dei simboli.

La questione dei simboli, ma prima ancora del loro rispetto, è di grande attualità. Viviamo in una società che tarda a comprendere la necessità di coniugare la testa con il cuore. In più ambiti, si ha la pretesa di ridurre ogni esperienza umana a una astrazione, misurabile dalla sola ragione. Lasciando così, paradossalmente, che il patrimonio millenario dei simboli, con la loro forza propulsiva, venga saccheggiato da chiunque voglia impadronirsene strumentalmente, per rivestire i propri progetti, non sempre edificanti, sulla società e sulla politica.

Siamo entrati in un simbolismo 2.0: un limbo senza memoria, in cui puoi trasferire tranquillamente un simbolo da un contesto all’altro, cambiandogli di significato. Mi è successo di sentire in pullman una scolaresca, del tutto ignara delle implicazioni storiche e politiche che tanto fanno litigare appassionatamente gli adulti, cantare a squarciagola Bella ciao, solamente perché è la sigla finale di una serie tv di successo. A questo curioso episodio di gita scolastica, potremmo affiancare ben altri recenti episodi che hanno riguardato la strumentalizzazione dei simboli religiosi, ma trovo che in merito abbia pienamente e intelligentemente scritto, nelle scorse settimane, il direttore della nostra Difesa.

Voglio invece richiamare la necessità della vigilanza e della custodia. Nel suo significato originale “simbolo” vuol dire “mettere insieme”, richiamando l’unione di ciò che non vuol rimanere separato, frutto di una reciproca attrazione. Quasi a indicare il superamento degli individui per formare un intero, che li comprende e li supera. Il simbolo, inoltre, rimanda sempre ad altro, rompe ogni tentativo di chiusura e apre sempre a un oltre, un ulteriore. Ma se viene snaturato, il simbolo diventa diabolico: portatore di divisione. Diviene il regno della chiusura e della guerra tra gli opposti. Questi ultimi sentono di poter bastare a se stessi e percepiscono la sola presenza dell’altro come una minaccia, da cui difendersi.

Si può concordare con chi richiama come lo stesso pronome “noi” ‒ che unisce i singoli in un'appartenenza comune – può essere perversamente utilizzato come una clava contro “gli altri”. Stessa cosa è successa e rischia ancora di succedere alla Croce cristiana: segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione divenuto simbolo della salvezza del Risorto, ma anche utilizzato come strumento di persecuzione nei confronti di infedeli ed eretici. Fino ad arrivare a oggi, dove rischia di diventare un orpello insignificante, un pretesto di lotta politica tra schieramenti opposti.

Non possiamo rassegnarci a questa strumentalizzazione, se non vogliamo che quanto ci ha donato la tradizione diventi un frutto avvelenato per le nuove generazioni.

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