Preghiera, come “accenderla”? Passi e stile da curare

Chi educa è chiamato a interrogarsi sul suo rapporto con il Signore

Preghiera, come “accenderla”? Passi e stile da curare

Pregare insieme: una bella sfida per chi è chiamato a educare all’arte della preghiera. In questi ultimi mesi ci siamo confrontati tra referenti e collaboratori della Pastorale dei giovani, vocazioni, dell’università, Caritas e Centro missionario, insieme agli assistenti dell’Ac e degli scout e a don Leopoldo Voltan. L’obiettivo era mettere nero su bianco alcune linee comuni e abbozzare uno “stile” per i momenti di preghiera che coinvolgono i giovani a livello diocesano.

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Il testo, semplice e agile, si può leggere a questo link: http://bit.ly/PreghieraComune Ci piacerebbe che queste indicazioni potessero risultare utili per tanti – adulti e giovani, educatori, accompagnatori di giovani e preti – e innescare un confronto nelle comunità cristiane che si interrogano su stili, atteggiamenti e modalità per educare alla preghiera i giovani (e non solo!).
Quest’anno, nei primi incontri della Scuola di preghiera del Seminario maggiore, ho avuto il compito di introdurre i giovani nella preghiera. Due minuti, una semplice provocazione collocata tra le prove di canto e l’inizio della preghiera. Come “accendere” la preghiera? Come entrare alla presenza di Dio?

A volte, mentre celebro, guardo i fedeli che entrano in chiesa. D’accordo, magari sono i ritardatari che, colti in flagrante, entrano di soppiatto tra la prima e la seconda lettura, con la coda tra le gambe. Ma spesso mi stupisce e rattrista vedere un ingresso frettoloso e superficiale, frequentemente senza genuflessione o segno della croce. Si entra in Chiesa come se si entrasse in bar o in un negozio, senza la formalità di quando si entra in casa d’altri e si dice «permesso?» – il che potrebbe essere un fatto positivo – ma senza nemmeno il calore e la familiarità di quando si torna a casa propria e ci si sente attesi e accolti da un «benvenuto/a! Ti aspettavo!». Allo stesso modo, si potrebbe “dire” una preghiera al termine di un incontro, magari condendola con una lunga riflessione: parole, sempre tante parole. Che rischiano di rafforzare la dimensione orizzontale di gruppo, come quando si “dice” il Padre nostro tenendosi per mano, ma che non aprono al trascendente, al mistero.

La superficialità a cui prima accennavo nell’entrare in chiesa, la stessa che a volte prende anche me quando “dico” il breviario, non denota però l’assenza di un desiderio di Dio. Anche papa Francesco lo sottolinea nella Christus vivit: «Non bisogna sottovalutare i giovani come se fossero incapaci di aprirsi a proposte contemplative. Occorre solo trovare gli stili e le modalità appropriati per aiutarli a introdursi in questa esperienza di così alto valore» (224).
Siamo fatti di corpo e “accendere” la preghiera, mettendosi alla presenza del Signore, è il primo passo da curare con attenzione. Negli incontri della Scuola di preghiera del Maggiore e nella veglia degli Eremitani ho aiutato i giovani a entrare nel silenzio, a recuperare il segno della croce, a riscoprire l’importanza della direzionalità della preghiera (rivolgendosi al crocifisso o al tabernacolo). Sono gesti e atteggiamenti fondamentali, forse un tempo scontati, che si imparavano in famiglia prima ancora che a catechismo. Oggi non è più così. Non si tratta però di cercare esperienze sempre nuove o esotiche ma di recuperare il tesoro della spiritualità e della pietà popolare, superando aridi intellettualismi ed evitando eccessivi “emozionalismi”.

Chi accompagna i giovani in tutto questo è interpellato in prima persona: io come prego? Qual è la mia esperienza di preghiera? Cosa mi aiuta a stare in compagnia del Signore? Perché se la nostra preghiera è davvero incontro con il Signore, allora sì diventiamo contagiosi.

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