Aggiornare la cittadinanza. La legge sulla cittadinanza tra poco festeggerà trent’anni
È passato molto tempo dalla sua formulazione, non viviamo più nell’Italia di inizio anni ’90, bisognerebbe prenderne atto.
L’estate ha riaperto il dibattito sull’ipotesi di avviare una riforma della legge sulla cittadinanza e sull’accoglienza dei cittadini stranieri in Italia. La prima finestra si è aperta durante le Olimpiadi di Tokyo che hanno visto gareggiare sotto la bandiera italiana atleti originari dei cinque continenti. La manifestazione è stata un esempio di Italia plurale. Tutti contenti dei risultati ottenuti.
Poi il presidente del Coni Malagò ha sottolineato le lunghe tempistiche e le tante difficoltà per acquisire la cittadinanza italiana, incontrate dagli atleti che crescono, vivono e maturano professionalmente in Italia: un lento percorso burocratico.
La seconda finestra si apre con l’accoglienza dei rifugiati afghani che sono entrati nel nostro paese con il ponte aereo che chiudeva la missione nel paese asiatico. L’accoglienza di queste persone, che hanno collaborato con i nostri connazionali durante i vent’anni di presenza italiane in Afghanistan, apre un secondo nodo scoperto che riguarda invece il riconoscimento di statuto di rifugiato, la lunghezza dei tempi che intercorrono dalla richiesta al momento in cui viene espresso il giudizio: un periodo in cui queste persone – come le altre che da tempo attendono – vivranno in un limbo, senza poter lavorare, senza poter iniziare a progettare una loro vita autonoma, per sé e per le loro famiglie.
Le due situazioni ci mostrano come la nostra società vive un’ambiguità: da un lato è consapevole della sua dimensione multiculturale, di cui lo sport è solo la punta dell’iceberg. Basta pensare alle 603mila imprese (il 10% del totale) guidate da cittadini non italiani che contribuiscono a rendere vitale il mondo della produzione e del lavoro, oppure all’esercito di collaboratrici domestiche, babysitter, assistenti familiari che sostiene le attività di cura per i nostri cari. Circa un milione secondo i dati Inps, che non contano quanti lavorano nelle nostre famiglie in nero. Dall’altro lato, il nostro Paese cerca di arginare il percorso di integrazione e di inserimento. Discorso diverso da quello degli sbarchi, degli ingressi e della prima accoglienza, che – invece – viene sempre sbandierato da quanti vogliono bloccare sul nascere ogni discussione.
In fondo aggiornare la legge sulla cittadinanza, che tra poco festeggerà trent’anni, potrebbe aiutare a favorire una nuova consapevolezza. È passato molto tempo dalla sua formulazione, non viviamo più nell’Italia di inizio anni ’90, bisognerebbe prenderne atto. Al principio dello jus soli, nel mondo fluido di oggi, sarebbe ora di affiancare alcune alternative.