Caso Floyd, Barnao (Umg): oltre al razzismo considerare i metodi di addestramento militare

Il sociologo dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro individua punti di contatto con vicende come quella di Stefano Cucchi. E sulla base di una sua ricerca sostiene l’ipotesi di “una correlazione tra il modello addestrativo delle forze armate ed episodi di violenza sadica e di tortura”. Poi avverte: “Cambiare modello psicologico-educativo”

Caso Floyd, Barnao (Umg): oltre al razzismo considerare i metodi di addestramento militare

“Sono convinto che nelle dinamiche del caso Floyd il razzismo c’entri, ma rischiamo di trascurare un’altra variabile molto importante, quella dei metodi di addestramento” delle forze armate: così Charlie Barnao, professore di sociologia e di sociologia della sopravvivenza all’Università “Magna Graecia” (Umg) di Catanzaro”, a proposito del cittadino afroamericano deceduto a maggio scorso a seguito di un’operazione di polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti. Barnao spiega la sua tesi nel corso di un seminario a distanza, in via telematica, promosso pochi giorni fa dal centro di ricerca in “diritti umani, integrazione e cittadinanza europea” attivato in seno all’ateneo catanzarese e diretto da Massimo La Torre, professore di filosofia del diritto tra i massimi esperti sul tema della tortura.

Barnao fa riferimento alla morte di Federico Aldrovandi e a quella di Emanuele Scieri. Poi mostra le immagini del carcere di Abu Ghraib diventate famose in tutto il mondo perché documentavano abusi da parte di militari statunitensi a danno di civili iracheni. E ancora: cita la recente vicenda di Tony Drago, il militare trovato morto nella caserma Sabatini Lancieri di Montebello a Roma per cui il giudice per le indagini preliminari ha disposto l’archiviazione con conseguente ricorso dei parenti della vittima alla Corte europea dei diritti umani: ricorso mosso dalla speranza di una riconsiderazione del caso di cui Barnao si è occupato nel ruolo di consulente della famiglia  del giovane per via di un passato da parà e di un presente da ricercatore su rituali e pratiche addestrative in ambienti militari.
Infine la vicenda di Stefano Cucchi, i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, e altri casi messi tutti insieme per parlare dei primi risultati di una ricerca ancora in corso che il sociologo conduce da diversi anni, prendendo spunto anche dalle testimonianze raccolte negli anni Novanta quando era militare della Folgore. Un lavoro in buona parte “auto-etnografico”, dunque. Perché l’oggetto dell’indagine è per molti versi vissuto sulla stessa pelle del ricercatore. Soprattutto, uno studio che individua punti di contatto tra il caso Floyd e molti altri episodi come quelli passati in rassegna: “L’ipotesi centrale attorno alla quale si sviluppa questo lavoro è che esiste una correlazione tra il modello addestrativo delle forze armate ed episodi di violenza sadica e incontrollata e di tortura, perpetrati da parte degli attori sociali formati sulla base di quel modello”, spiega Barnao nel corso dell’evento online. Uno studio che il sociologo descrive con l’articolo “Il soldato (im)perfetto. Addestramento militare, polizia e tortura”, pubblicato sulla rivista scientifica Ordines, nata nell’ambito del dipartimento di scienze giuridiche, storiche, economiche e sociali dell’università “Magna Graecia” e diretta dal professore La Torre.

Proprio sulla base di queste consolidate ipotesi di ricerca, Barnao sostiene che “la violenza su Floyd non è diversa da quella su Stefano Cucchi” ponendo in primo piano “la variabile molto importante” delle modalità di addestramento al centro del suo studio. Secondo questa impostazione concettuale, inoltre, l’elemento della discriminazione razziale contro Floyd non assumerebbe carattere di spiccata specificità: infatti “anche quello nei confronti di Cucchi fu razzismo, non razzismo biologico, ma razzismo basato su caratteristiche per cui il giovane è stato considerato individuo inferiore”.

Più in generale, la questione riguarda comportamenti violenti e sadici ipotizzando “cause che potremmo definire strutturali come ad esempio l’addestramento e il modello formativo da esso perseguito”. Una tesi che indebolisce e rimette in discussione la spiegazione legata all’azione delle cosiddette “mele marce”. Una spiegazione, quest’ultima, tutta concentrata sulle caratteristiche e le responsabilità dei singoli: una chiave di lettura - ricorda con il suo articolo Barnao - adottata ad esempio per i “casi di tortura perpetrata da parte dei soldati statunitensi in Iraq e Afghanistan”.

Un tema - osserva ancora il sociologo - la cui rilevanza in termini di attualità “è data prima di tutto dal contesto culturale, economico e politico in cui ci troviamo”. Infatti “diversi scienziati sociali mettono in evidenza l’odierna crisi strutturale dei processi democratici”. “È all’interno di questa crisi - scrive nel suo articolo il professore - che si innestano nuove e sempre più pressanti politiche sicuritarie e un marcato processo di militarizzazione della società tutta”. Scenari rinnovati a seguito degli attentati dell’11 settembre del 2001 che “hanno accelerato ed estremizzato tali trasformazioni”.

Aspetti su cui prestare attenzione anche oggi che in Italia, sulla spinta del caso Scieri, il servizio di leva obbligatoria non è più in vigore: a tal proposito, “ci sono buone ragioni per credere che il sistema addestrativo e il modello educativo sottostante non siano sostanzialmente cambiati”, scrive Barnao in un capitolo del saggio a più voci dal titolo “Accoglienza e autorità nella relazione educativa. Riflessioni multidisciplinari”, pubblicato nel 2009 per Erickson Edizioni. Riflessioni che il sociologo conferma in occasione del seminario online soffermandosi su “una militarizzazione” tradotta in forme di accesso concorsuale alle forze armate “riservate per la stragrande maggioranza dei casi a persone provenienti dall’esperienza dell’addestramento militare” per cui “si sta assistendo a una sorta di trasformazione antropologica degli agenti di polizia”.

La ricerca si basa tra le altre cose sull’analisi di inchieste giudiziarie e giornalistiche, sullo studio della manualistica e di “documenti ufficiali dell’amministrazione statunitense sulla tortura”, ma anche sul ruolo di psicologi “coinvolti in modo massiccio nella stesura di programmi addestrativi”. Programmi - spiega Barnao - pensati in risposta a guerre come quella in Vietnam diventate non più solo “tecnologiche”, ma “guerre tra la gente”, con guerriglie, incontri ravvicinati con le popolazioni civili, esposizione a prove di resistenza estrema come le torture. Da qui il compito di scienziati chiamati in causa per “individuare modelli addestrativi che blindassero le menti dei soldati” attraverso rigidi meccanismi di stimolo/risposta propri della psicologia comportamentista. Ne deriverebbe quindi il “nuovo tipo ideale” di soldato, “addestrato a un’obbedienza cieca, a resistere alle violenze (fisiche e psicologiche più estreme) e a non essere empatico verso il nemico”, anche quando i “nemici” sono inermi civili.

Sotto i riflettori di questa indagine ci sono modelli di apprendimento pensati - spiega Barnao - per la formazione delle “forze speciali”, ma capaci di influenzare più in generale la “cultura militare” a vari livelli. Processi formativi “inadeguati”, avverte il sociologo. Con il risultato che “sulla base di quanto emerge in questo lavoro, alcune patologie dei militari legate alla salute mentale e alcuni comportamenti particolarmente violenti e sadici dei militari stessi si possono correlare proprio all’addestramento a cui sono sottoposti”. Si tratterebbe di pratiche associate in termini di conseguenze alla cattiva gestione di situazioni di ordine pubblico, come proteste di piazza o manifestazioni pacifiche, ben diverse dalla realtà “artificiale” dei luoghi di addestramento e da quelle caserme “diventate veri e propri laboratori” per l’applicazione di tecniche di apprendimento tra le più avanzate.

Ecco, dunque, il suggerimento: “Bisogna cambiare metodi addestrativi e modello psicologico-educativo”.
Il sociologo dell’ateneo catanzarese guarda in particolare alla psicologia umanistica, secondo cui il benessere degli individui deriva dal soddisfacimento di tutta una serie di bisogni, fisiologici ma anche legati allo sviluppo della creatività e delle potenzialità personali, all’amore, all’autostima, e alla “pienezza umana” per dirla con Abraham Maslow, pioniere di questo approccio: “A mio avviso - conclude Barnao - la psicologia umanistica, che si contrappone in modo netto a quella comportamentista, è da utilizzare il più possibile in questi processi di addestramento”.

Francesco Ciampa

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)