Come facciamo squadra quando “non c’è più niente da fare”

Terzo e ultimo passo del viaggio nell’hospice di Cesario di Lecce. Luogo su misura per i malati cronici inguaribili, dove non si fa nulla per accelerare e nulla per ritardare la fine della vita. Ma c’è ancora troppa resistenza culturale e troppo spesso ci si rivolge inutilmente ai pronto soccorso

Come facciamo squadra quando “non c’è più niente da fare”

Dentro le mura dell’hospice di San Cesario di Lecce, in cui si accompagnano negli ultimi tempi della loro vita i malati cronici inguaribili che vivono nel Salento e nei territori limitrofi, sono tante le figure professionali che con attenzione e dedizione contribuiscono al “prendersi cura” delle persone e dei loro familiari. Gente che ha imparato dall’esperienza personale quanto fondamentale sia, nel momento in cui la morte si avvicina, accompagnare e aiutare le famiglie a compiere le scelte giuste per gestire un momento così solenne e doloroso.

Elisabetta Costante, 24 anni, è attualmente il componente più giovane dell’equipe multidisciplinare che lavora nell’hospice. Laureata in psicologia – specializzazione in psiconcologia – sta svolgendo da sei mesi all’interno dell’hospice il relativo tirocinio. “E’ per me la prima esperienza sul campo – racconta -, qui ‘si vive la morte’, e oltre agli aspetti medici contano moltissimo anche quelli umani. Si ascoltano le paure dei familiari e in alcuni casi anche quelle dei pazienti”.

Tuttavia - nonostante i notevoli passi avanti nella cultura delle cure palliative – sembrano permanere sacche di resistenza anche da parte della stessa classe medica: “Non è automatico – puntualizza il dirigente medico della struttura, Vincenzo Lucio Caroprese - il fatto di accedere a queste cure, soprattutto pensando ad un medico che ha avuto una formazione secondo cui bisogna tentare l’impossibile anche quando non è più possibile. Anche lo stesso medico di base, ad esempio, che ha seguito una persona per trent’anni, può avere difficoltà ad affermare che non c’è più nulla da fare, che quella persona va accompagnata al fine vita, come se il fatto di indirizzare il paziente all’hospice implicasse una sua mancanza di capacità”.

In parallelo al fronte culturale c’è anche quello della necessità di adeguarsi alla normativa di riferimento. La legge 38/2010, infatti, richiederebbe la nascita sui territori di unità operative complesse di cure palliative, capaci di prevedere da parte degli hospice sia l’assistenza residenziale – all’interno della struttura – che quella domiciliare, in collegamento tra loro. Attualmente, però, l’hospice di San Cesario offre solo assistenza residenziale, la Asl di Lecce mette a disposizione assistenza domiciliare in convenzione con alcune associazioni; “manca però il coordinamento tra queste realtà – afferma l’equipe di infermieri, medici e Oss - e l'assistenza domiciliare non è garantita in modo totale. In alcuni casi si riesce a collaborare con queste associazioni, in altri no. Non viene poi garantita la notte a casa della persona malata, c’è la presenza al mattino ma al pomeriggio molto di rado”. Questa realtà determina la mancanza di coordinamento nell’assistenza e inevitabilmente lo sfuggire alle maglie – troppo larghe – della rete proprio da parte dei pazienti che ne avrebbero più bisogno. Un buon funzionamento della rete dell’assistenza, invece, “consentirebbe di evitare numerosi ricoveri impropri – aggiunge Caroprese – perché non si può pensare che un reparto per acuti ponga un'attenzione pari a quella che si ha in hospice. Accade invece molto spesso che pazienti in fase avanzata, che necessitano solo di cure palliative, vengano dimessi dall'ospedale senza però essere indirizzati all'hospice. Quando arrivano a casa, i familiari non ricevono l'assistenza che si aspettavano, le difficoltà sono insormontabili e non sapendo come gestirle accompagnano il proprio caro al pronto soccorso, un luogo dove questo tipo di pazienti non dovrebbe minimamente accedere. In realtà, nel 2019, abbiamo preso in carico dal pronto soccorso, che ci ha contattato, ben diciotto persone. Se ci fosse un coordinamento nell’assistenza, noi potremmo essere allertati dai colleghi dell’ospedale, prepararci al ricovero, garantire un buon funzionamento della rete e lo stesso tipo di supporto sia a casa che in hospice”.

L’hospice, quindi, diventa cruciale come luogo di pieno riconoscimento dei diritti dei malati cronici inguaribili, luogo dove non si fa nulla per accelerare e nulla per ritardare la fine della vita. “Qui – precisa Pedaci, medico presso l’hospice – si può evitare quello che accade quando queste persone arrivano al pronto soccorso e trovano il medico che afferma: ‘cosa dobbiamo fare? E’ un malato terminale, riportatelo a casa’. Si tratta di un problema culturale, dobbiamo lavorare tutti per questo, il diritto a essere curati con dignità. Le leggi non mancano su questo, ma non vengono rispettate”.

Le sfide che gli hospice devono affrontare, quindi, sono legate anche alla legge 219/2017, relativa alle disposizioni anticipate di trattamento sul fine vita, la possibilità cioè per l'ammalato di non essere uno strumento nelle mani degli operatori. “In questa prospettiva – asserisce Caroprese - l'hospice acquisterà maggiormente dignità e ruolo cruciale per tutti coloro che decideranno di non ricevere per se stessi accanimento terapeutico, nel caso che la propria situazione non consenta un recupero. Nel momento in cui aumentano persone con questa consapevolezza, non si può pensare di accompagnarle in ospedale: è presente l’hospice come struttura che risponde alla richiesta di accompagnamento della persona al fine vita. L’unità operativa complessa, con coordinamento tra assistenza domiciliare e struttura residenziale, al momento qui in Puglia esiste solo a Monopoli.

Sara Mannocci

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)