Diamo fiducia alla scuola. C’è in gioco il futuro

L'augurio di don Lorenzo Celi, direttore dell'Ufficio diocesano e membro della Consulta Cei per l'educazione, la scuola e l'università, a studenti, insegnanti, dirigenti e genitori che in questi giorni hanno iniziato un nuovo anno di studio e di impegno educativo

Diamo fiducia alla scuola. C’è in gioco il futuro

Lunedì 2 settembre: di mattino presto squilla il cellulare. È uno dei nuovi dirigenti scolastici di prima nomina che inaspettatamente mi chiama per ringraziarmi della lettera inviata loro per augurare un buon inizio di mandato e condividere qualche idea su quanto insieme, chiesa e scuola, possiamo fare nell’ambito educativo. Il grazie è motivato soprattutto dal sano ottimismo che da quelle poche righe dice di aver riscontrato, «perché non è facile cominciare questo nuovo servizio nel clima di discredito e sfiducia che circonda la scuola italiana». Quasi mi avesse letto nel pensiero perché, mentre scrivevo quella lettera, continuava a risuonare in me l’imperativo che ho sentito più volte papa Francesco ripetere: «Bisogna ridare fiducia alla scuola!». Non uno dei tanti slogan politichesi che accompagnano le innumerevoli riforme scolastiche succedutesi in Italia in questi decenni, quanto piuttosto la convinzione che la scuola continua a essere importante per il nostro paese e per i nostri giovani e che non possiamo permetterci venga sotterrata dalle tante negatività che ahimè la cronaca è costretta a registrare.

La scuola è il luogo principe entro cui far emergere e affrontare le tante povertà educative che connotano il nostro presente, diverse magari per latitudine ma ugualmente insidiose per i nostri ragazzi. In una società dalle porte e dai porti chiusi, la scuola sia il cantiere dove si continua a insegnare a costruire ponti, tra compagni, tra colleghi, fra scuola e famiglia, fra diverse discipline contro la frammentazione dei saperi, fra diversi soggetti dell’educare. La scuola ritorni a essere palestra dove ci si allena alla vita, ricordando ai giovani che siamo chiamati a prendere sul serio la responsabilità del reale, senza rifugiarci nel virtuale.

Di fronte a un dilagante impoverimento della memoria, a una bruciante noia del presente e all’affievolimento della creatività verso il futuro, la scuola può e deve ritrovare la forza della proposta di senso, perché il tempo non sia percepito come un nemico ma come la componente fondamentale del nostro esserci, non schiacciata sul qui e ora ma proiettata verso un fine ultimo. Così, se si vuole recuperare la vocazione politica e sociale che è insita nella persona, abbiamo bisogno della scuola perché educhi primariamente a essere “uomini e donne di parola” che sanno abitare una comunità, consci della propria dignità, dell’esigenza di essere affidabili e quindi anche disposti a fidarsi degli altri per costruire bene comune. Non possiamo permettere che il numero degli hikikomori vada crescendo, come non possiamo far finta di nulla di fronte alle forme più o meno velate di bullismo e cyberbullismo che sembrano diffondersi a macchia d’olio.

Solo un sistema di alleanze incrociate fra quanti hanno compiti educativi, nel rispetto delle diverse competenze, potrà permettere alla scuola di riacquistare il compito che sempre nella storia le è stato assegnato: lavorare per far emergere un’autentica umanità. A questo proposito mi tornano in mente le parole contenute nel primo capitolo dell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II: «Più l’uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sulle cose e sulla sua stessa esistenza».

Ridiamo un’anima all’insegnamento e alle diverse discipline, comprese quelle scientifiche: non lasciamo che anche la scuola cada nelle mani della tecnocrazia e si svuoti dell’umanesimo di cui la nostra cultura è impregnata; il vero, il bello e il buono non siano parole bandite dal lessico scolastico, ma mete cui tendere insieme pur partendo da posizioni diverse, disposti – docenti e discenti – a correre il rischio di essere “cambiati” dal percorso condiviso. Noi insegnanti (non solo quelli delle materie letterarie, “umanistiche”), aiutiamo i nostri alunni a saper “costruire un testo” (textum, tessuto), ad avere la competenza di sviluppare un discorso lineare e chiaro che si configuri come espressione e narrazione coerente e leggibile dell’esperienza, valorizzando «i rapporti sintagmatici e associativi che caratterizzano il linguaggio» (mutuo queste espressioni da Ferdinande de Sausurre, padre della linguistica moderna).

Aiutiamoli con il nostro esempio di studiosi a essere studenti: persone che aspirano, desiderano, si appassionano alla vita nelle sue diverse espressioni e coltivano un metodo, con la pazienza del contadino, imparando a godere dei tempi lunghi della ricerca anziché crogiolarsi nella velocità e nell’illusione di un click. Mostriamo loro l’importanza di essere esperti – in umanità prima di tutto – e invitiamoli a darsi il tempo per gustare il “sapore del sapere”, che si acquisisce con l’attenzione al contesto di vita, la preoccupazione per l’altro, la meraviglia per ciò che è bello e l’indignazione per ciò che è riprovevole.

Se sapremo noi per primi recuperare la fiducia nel nostro servizio come educatori, aiuteremo anche gli altri a ridare fiducia alla scuola. Buon anno!

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