Donne e lavoro. Volpato (Acli): “La legge sulla parità salariale è un buon passo avanti, ma occorre un profondo cambiamento culturale”

Un buon segnale la legge sulla parità retributiva uomo - donna, ma occorre affrontare anche il tema della "conciliazione casa - lavoro" e serve "un nuovo welfare di famiglia". A tre giorni dall'approvazione del provvedimento, la responsabile Coordinamento donne Acli indica alcune piste su cui lavorare per superare il divario di genere e favorire realmente l'occupazione femminile per una società più equa e inclusiva. Ma, avverte, le disuguaglianze di genere si combattono soprattutto con l'educazione, a partire dall'asilo

Donne e lavoro. Volpato (Acli): “La legge sulla parità salariale è un buon passo avanti, ma occorre un profondo cambiamento culturale”

Il 26 ottobre il Senato ha dato il via libero definitivo (e all’unanimità) al testo unificato sulla parità salariale uomo – donna. Ora il provvedimento (precedentemente approvato all’unanimità anche a Montecitorio) è legge. Un passo avanti nella lotta contro le disuguaglianze di genere in un Paese che nell’Unione europea sconta tuttora un forte ritardo in tema di occupazione femminile: intorno al 50% che al sud si riduce ad una donna su tre nonostante l’obiettivo europeo fosse del 60% entro il 2010 e del 70% entro il 2020. A Chiara Volpato, responsabile Coordinamento donne Acli, abbiamo chiesto la reale portata di questo provvedimento e quali tasselli ancora manchino per una reale parità lavorativa tra uomo e donna.

Qual è il suo giudizio sulla legge in materia di parità salariale uomo – donna? E’ davvero uno strumento efficace per ridurre il gap retributivo tra lavoratrici e lavoratori del nostro Paese?
Quando in Parlamento si discute e si vota all’unanimità su una legge che riguarda le disparità di genere è sempre un bel segnale, perché significa che

finalmente stiamo prendendo coscienza di una piaga per troppo tempo sottovalutata.

Entrando però nel merito del testo della norma, abbiamo visto che si tratta di una certificazione aziendale, seppur obbligatoria, e di alcuni sgravi fiscali per le assunzioni al femminile. Sicuramente un buon incentivo per le aziende, ma affinché la legge abbia davvero valore e venga presa in considerazione da tutti, bisognerebbe introdurre sanzioni molto più pesanti per chi non ha questa certificazione (come ad esempio succede in Francia) e fare in modo che la stessa certificazione non divenga un aggravio aggiuntivo, soprattutto per le piccole e medie imprese.

In ogni caso c’è ancora molto da fare. Secondo la ricerca “Covid-19: la crisi più dura per le donne in un Paese ancora senza parità”, a cura di Laboratorio Futuro e dell’Istituto Toniolo, l’Italia è in forte ritardo in tema di occupazione femminile. Quali le ragioni?
Questa è una ricerca che abbiamo studiato con molto interesse discutendo anche nell’ultimo seminario del 13 ottobre scorso quali siano le possibili ragioni di un tale ritardo. Certamente in cima alla lista c’è una ragione culturale, che diventa molto forte in aree dove tassi di diplomati e laureati sono più bassi rispetto al resto del Paese. Ma poi, l’altra vera grande ragione che riguarda la grande metropoli come il piccolo paese di provincia, al di là della discriminazione nei confronti delle donne, è

il tema della conciliazione casa-lavoro:

finché non lavoreremo su questo tema, che significa discutere e riformare profondamente la condivisione dei carichi di lavoro all’interno della famiglia, sarà molto difficile che si possano fare concreti passi avanti rispetto al divario di genere.

Il Pnrr destina 4.6 miliardi per gli asili nido. Una buona notizia, ma, come lei ha appena sottolineato, occorre anche un cambiamento culturale per arrivare ad una equa ripartizione del lavoro di cura tra uomini e donne…
Esatto. Ma aggiungo inoltre che bisogna capire bene quanti dei fondi previsti per gli asili nido siano destinato alle strutture perché, ad una prima lettura, ci risulta che il capitolo di spesa più grosso sia proprio sugli investimenti in opere strutturali. Naturalmente va benissimo, perché è evidente che nel nostro Paese, soprattutto in alcune aree, mancano gli asili nido, però dobbiamo anche metterci del personale lì dentro: soggetti che abbiano una formazione specifica di alto livello e a questo proposito crediamo perciò che una bella fetta di quei 4.6 miliardi di euro debba essere impiegata proprio per la formazione e il reclutamento di nuovo personale, naturalmente con un occhio di riguardo all’occupazione femminile. E poi agli asili nido dobbiamo affiancare anche leggi che vadano sempre nella direzione della condivisione: ho letto con piacere che

la ministra Bonetti (Pari opportunità e famiglia, ndr) ha annunciato la riforma del congedo di paternità nel prossimo Family Act, che dovrebbe passare dai tre giorni attuali (una presa in giro) ai tre mesi

che ci avvicinerebbero ai Paesi europei che fanno meglio su questo fronte: una norma di buon senso che aspettiamo da anni e che si deve accompagnare ad

una riforma del welfare che sia a vantaggio di donne, uomini, bambini e anziani: un nuovo welfare di famiglia.

Lo scorso 23 ottobre, alla Settimana sociale dei cattolici a Taranto, il ministro del lavoro Orlando ha annunciato la convocazione entro fine mese di un tavolo con le parti sociali e i soggetti responsabili del lavoro per ragionare su un accordo-quadro sullo smart working. Come cogliere questa preziosa opportunità per legare il lavoro al risultato e conciliarlo con le esigenze familiari, evitando tuttavia che si trasformi in una nuova forma di “ghettizzazione” della donna?
È un tema che ci interessa molto e vorrei dire da subito che non bisogna fare trincee, cioè difendere a spada tratta lo smart working – soprattutto se si tratta del telelavoro che abbiamo visto in questi due anni di pandemia – oppure criticarlo in toto spingendo il legislatore a non contemplarlo come una delle possibili modalità di svolgere una prestazione professionale. Partiamo dal presupposto che

lo smart working è un’occasione in più per conciliare carichi di lavoro familiari e carichi di lavoro dovuti alla professione che si svolge.

Certo il periodo del lockdown non può essere preso come esempio di una buona conciliazione, visto che molto spesso le donne si sono trovate a dover gestire sia il proprio lavoro da casa che la didattica a distanza dei figli. Ma credo che con alcuni aggiustamenti, che vanno nella direzione ad esempio del diritto alla disconnessione e della sicurezza del posto del lavoro domestico, possa davvero rappresentare un modo per ottimizzare al meglio il tempo sia delle donne che degli uomini.
Con alcune rappresentanti del governo e alcune parlamentari abbiamo iniziato, proprio il 13 ottobre scorso, un cammino per discutere sul tema e monitorare le sue possibili deviazioni, evitando ad esempio che si riproducano gli effetti negativi della legge sul part time, una norma pensata per riattivare l’occupazione dopo la grande crisi economica del 2008 ma che ben presto si è trasformata in un modo, per le aziende, di risparmiare sui contratti di lavoro, riducendo l’orario settimanale soprattutto alla componente femminile. Il Coordinamento delle donne Acli vuole creare dibattito intorno ad una norma che può essere davvero importante, a patto che si tratti di uno smart working più umano e che avvantaggi tutti.

Un altro divario di genere riguarda le lauree in discipline Stem, sempre più richieste dal mercato del lavoro ma poco “frequentate” dalle donne. Anche qui c’è uno stereotipo culturale da abbattere?
Sì, si tratta di uno stereotipo molto diffuso, anche se non l’unico e certamente non il più frequente, ma che parte da lontano e ancora una volta ci dice, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che la disparità di genere si deve combattere da subito, puntando sui giovani e sui giovanissimi, ma direi anche dall’asilo nido e dalla scuola materna, quando il bambino comincia ad apprendere la realtà che lo circonda:

formare ed educare sono i primi antidoti per provare a superare le diseguaglianze di genere che sicuramente concorrono a bloccare il nostro Paese.
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Fonte: Sir