Economia come ritorno alla natura: utopia? Una rilettura di "Benedetta economia" per trarre ciò che è utile nel presente

La riedizione di un libro di Bruni e Smerilli ci mette di fronte al problema di come superare un’economia non più a misura d’uomo.

Economia come ritorno alla natura: utopia? Una rilettura di "Benedetta economia" per trarre ciò che è utile nel presente

Utopia è la prima parola che viene in mente alla lettura della riedizione (il libro uscì dodici anni fa) di “Benedetta economia”. Il volume, firmato da due docenti di Economia politica, Alessandra Smerilli e Luigino Bruni (prefazione di Stefano Zamagni, Città Nuova, 114 pagine), pone, oggi ancora con più urgenza di ieri, la dolente questione del perché di ricorrenti crisi, delle diseguaglianze di sviluppo, del tramonto dei vecchi modelli, quello liberale e quello socialista, ponendo il lettore di fronte ad un bivio: o si ritorna al carisma di alcune economie sviluppatesi dall’esempio benedettino e francescano o si va verso crisi ancora più terribili, perché la miseria si coniuga con la spoliazione e la rovina del sistema ecologico. Potrebbe essere una mera utopia se presa alla lettera. Se cioè si tentasse di riportare indietro l’orologio del tempo, cosa irrealizzabile, per riprendere meccanicamente i modi di quelle esperienze. Se però si storicizzano, come fanno gli autori, quegli eventi e se ne trae ciò che può esserci utile per il presente, allora le cose si fanno assai interessanti. Ad esempio l’intuizione della discontinuità tra modello benedettino e cultura economica romana di appena pochi lustri prima.

Il lavoro nella Roma imperiale (nell’età arcaica gli stessi leader, soprattutto quelli della componente latino-sabina, coltivavano la terra) era riservato agli schiavi e ai plebei, mentre l’otium e la politica erano appannaggio delle classi più in alto nella scala sociale. Benedetto pone il lavoro e la preghiera come beni fondamentali di una società diversa. E da lì inizia una nuova era che porterà ai mulini ad acqua, alle rotazioni dei campi, della birra e a molto, molto altro: soprattutto la concezione del lavoro come dignità, comunione, libertà. Francesco d’Assisi sembra un pesce fuor d’acqua in questa tematica. Che c’entra il poverello con l’economia, l’interesse, il saldo, il prezzo, quando lui aveva fatto la scelta opposta? Proveniva da una famiglia in cui il lavoro era commercio, scambio di merce contro moneta, possibilità di arricchimento, vale a dire salto sociale, il che, aveva intuito il santo, significava commercio di tutto, ivi compresa la diginità e l’amore. Come faccio a sapere se la donna che vive con me non mi ha scelto per i miei soldi? E come faccio a fare l’uomo vero, vale a dire a vivere nella vera bellezza della natura e della comunità gratuita e non interessata dei rapporti umani se mi circondo solo di cose? Francesco non ha mollato tutto, ma, ne fosse cosciente o no, ha fondato per la terza volta -dopo quella romana e quella benedettina- la visione del mondo economica.

La natura non ci fa pagare nulla, se la rispettiamo mangiamo l’indispensabile, se coltiviamo e lavoriamo secondo inclinazione e necessità comunitaria, cessiamo la corsa al sempre di più superfluo, evitiamo di diventare l’egoismo fatto persone, di arrecare solo danni. Il lavoro è anche mano tesa verso l’altro, la povertà tanto temuta dal padre di Francesco, Bernardone, non è quella derisa dai “borghesi” di allora, miseria, vergogna e malattia, ma modalità di stare insieme, di curarsi insieme. Non aveva ragione Marx: il modo, rienuto sovrastruttura, è fondamentale. Dare con amore e con il sorriso rende la vita migliore a sé e all’anziano che attende il tuo, di sorriso, non solo il piatto di zuppa, per essere davvero felice.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir