Imparare ad essere un accordo. Lo Stabat Mater di Ezio Bosso

Quest’anno, per augurare buona Pasqua, il pianista e direttore d’orchestra Ezio Bosso aveva scelto il finale dello “Stabat Mater” di Gioachino Rossini.

Imparare ad essere un accordo. Lo Stabat Mater di Ezio Bosso

“Amen, in sempiterna saecula”. Quest’anno, per augurare buona Pasqua, il pianista e direttore d’orchestra Ezio Bosso aveva scelto il finale dello “Stabat Mater” di Gioachino Rossini, eseguito il 4 maggio 2019 nella chiesa di San Fortunato a Todi con la con la Europe Philharmonic Orchestra e il Coro Filarmonico Rossini di Pesaro.

Il video postato su Facebook  porta la data del 2 maggio, due giorni prima del concerto, quando si è tenuta la prima delle prove aperte al pubblico. Un’esecuzione vibrante e intensa, carica di energia. Ma ancora un “work in progress”. Perché – come aveva spiegato lo stesso Bosso in un’intervista televisiva di un mese fa – la musica, con le sue note e i suoi accordi, è come la vita, un continuo percorso creativo e interpretativo, che coinvolge non solo i musicisti, ma anche quanti partecipano dalla sala “suonando con il loro silenzio”.

La stessa storia dello “Stabat Mater” di Rossini è, di fatto, la storia di un “work in progress”.

Siamo ai primi di febbraio del 1831. Gioachino Rossini si reca in Spagna con l’amico banchiere Aguado. Don Manuel Fernàndez Varela, ricco prelato spagnolo, venuto a sapere della presenza del famoso compositore pesarese, contatta Rossini chiedendogli di comporre per lui un’opera sacra importante come lo “Stabat Mater”. Rossini conosceva bene lo “Stabat” di Pergolesi ed era convinto che non se ne potesse scrivere uno migliore. Decide comunque di accettare la richiesta del prelato, a patto che la composizione non venisse data alle stampe e venisse eseguita dal prelato solo ed esclusivamente in occasioni private. Rossini è sofferente. Dopo il “Guillaume Tell”, iniziano a comparire i primi sintomi di esaurimento nervoso. Inizia a scrivere la partitura, ma poi non se la sente di completarla e chiede all’amico Tadolini di terminarla. L’opera viene eseguita nel Convento di San Felipe el Real a Madrid il 5 aprile 1833. Padre Varela muore quattro anni più tardi. Rossini, venuto a sapere della scomparsa del prelato spagnolo e dell’intenzione dei suoi eredi di pubblicare la partitura, decide di riprendere in mano lo “Stabat Mater” e rifare di proprio pugno le parti un tempo affidate a Tadolini. La prima dell’opera è a Parigi, il 7 gennaio 1842. Il 18 marzo segue la prima italiana all’Archiginnasio di Bologna. A dirigere l’orchestra Rossini vuole Gaetano Donizetti.

Lo “Stabat Mater” – a mezza via tra l’opera e la musica sacra propriamente detta – è uno dei lavori più amati di Rossini. Alcuni lo ritengono il suo autentico capolavoro. Il testo di Jacopone da Todi viene trattato dal compositore pesarese come un vero melodramma, in cui Maria e gli altri protagonisti della Passione di Cristo si confrontano sul dramma della morte. Fino al finale, dove l’Amen, quell’“io credo”, è un grido straziato dal dolore, che incontra dapprima il silenzio e poi esplode in un canto di gioia.

A metà marzo, sulla sua pagina Facebook, Bosso racconta il suo dolore, la fatica di sentirsi bloccato due volte tra le mura di casa, prima dal lockdown per l’emergenza Covid-19 e poi da quella malattia con cui convive da una decina di anni: “Io li conosco i domani che non arrivano mai. Conosco la stanza stretta. E la luce che manca da cercare dentro. Io li conosco i giorni che passano uguali, fatti di sonno e dolore e sonno, per dimenticare il dolore. Conosco la paura di quei domani lontani che sembra il binocolo non basti. Ma questi giorni sono quelli per ricordare le cose belle fatte, le fortune vissute, i sorrisi scambiati che valgono baci e abbracci”. Ma anche nella fatica non ha mai smesso di guardare al domani. “Perché il domani – scrive – quello col sole vero arriva e dovremo immaginarlo migliore, per costruirlo. Perché domani non dovremo ricostruire, ma costruire e costruendo sognare. Perché rinascere vuole dire costruire. Insieme, uno per uno”.

Il 2 aprile Bosso dedica uno scritto alla sua orchestra, che per lui è la sua famiglia, la sua vera casa: “Sono in ogni nota che ho curato. Esisto in ogni nota insieme alle mie sorelle e fratelli, figlio o nipoti. Sono ogni nota studiata, suonata e donata, amata. Perché non c’è nota che non ami e che non abbia amato. Sono rinato. Nota dopo nota. Fino ad abbracciarle tutto. Mi mancate. Quel sorriso che mi date. È dura. Il corpo non distratto dalle vostre note, cura e terapia. E in ogni nota che sto curando, preparando, studiando, ci siete. In ogni nota. E saremo. Ogni nota”. E loro, gli orchestrali, gli rispondono qualche giorno più tardi con un video, in cui declinano le parole del loro maestro, viste dalla loro parte. “Mi hanno fatto il più bello dei regali – scrive Bosso il 9 aprile – rispondere con un gesto di amore a una lettera d’amore, facendo vivere quelle parole come facciamo vivere le note. Essere famiglia… imparare ad essere un accordo più che ad essere d’accordo. Perché è così bello essere parte dell’accordo… divenendo l’accordo stesso”.

Venerdì 15 maggio, a tre giorni dalle tanto attese “riaperture”, a cui l’Italia guarda – non senza paura e incertezze – come alla fine di un lungo deserto durato più di due mesi, Ezio Bosso ha posato la sua bacchetta.

“Amen, in sempiterna saecula”. Era il 21 novembre 1868 quando le note dello “Stabat Mater” di Rossini risuonarono nella chiesa della Sainte-Trinité di Parigi durante il funerale del compositore pesarese. Oggi quelle note piene di energia, dolore e speranza salutano sui social un uomo che ha amato la musica con tutta la sua vita e ha amato la vita con tutta la sua musica.

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Fonte: Sir