La guerra in Ucraina in un mondo che cambia. Ma a diverse velocità

Negli giorni scorsi si è aperto il giallo della ritirata russa da Kherson, con il ripiegamento di truppe e l’evacuazione dei civili dalla riva destra del Dnepr.

La guerra in Ucraina in un mondo che cambia. Ma a diverse velocità

Negli giorni scorsi si è aperto il giallo della ritirata russa da Kherson, con il ripiegamento di truppe e l’evacuazione dei civili dalla riva destra del Dnepr. Nonostante il trionfalismo dell’informazione, Kiev ha confessato un atteggiamento sospettoso, considerando che la linea nemica, in quel segmento, non stava soffrendo particolari difficoltà: forse una trappola in un imbuto ormai privo di ponti e collegamenti stradali, su un terreno a breve fangoso, se non sfruttabile prima per lo slancio di una controffensiva. I più ottimisti ipotizzano un arretramento per consolidare i territori che gli Usa sarebbero disposti a “concedere”. Altre analisi, invece, riconducono la manovra all’andirivieni del fronte russo per protrarre l’uso di uomini sacrificati dagli attacchi ucraini e il flusso continuo di armamenti Nato. Il tutto concomitante al bersagliamento di infrastrutture critiche che ora suggerisce l’obiettivo di consegnare l’Ucraina sgangherata e in bancarotta alle cure dei portafogli euroatlantici. Alla luce della radice glocale della guerra, ciò si rivela un adattamento strategico ai risvolti su scala macrosistemica, per contenere lo scarto tra Russia e Occidente appesantendo il fardello specialmente sui gregari europei degli Usa. Pur sempre entro una logica di procurato stallo e di reciproco logoramento che ben si sposa con le immagini sul campo di trincee, denti di drago e cavalli di frisia, icone della Prima Guerra mondiale che d’altronde stridono con gli occhi satellitari offerti alle forze antirusse da Elon Musk – che ora batte cassa per pubblicizzare la funzionalità bellica del suo Starlink.
Lo stallo contrasta soprattutto con il dinamismo Usa, che avvalora il concetto di George Friedman di una nazione “inventata”, pertanto vocata a rifondarsi ciclicamente. E, come superpotenza planetaria, a rifondare gli equilibri globali, per conservare il primato alterando gli assetti dello status quo sfruttabili dai concorrenti, tramite accelerazioni e sterzate utili a sfiancarli nella rincorsa. La guerra in Ucraina infatti consente di bruciare le proiezioni extraregionali di una Russia comunque “lenta”. In secondo luogo, di rigenerare la Nato attorno a una nuova minaccia (dopo quella sovietica e quella jihadista), ottenendo altresì il riarmo dei soci di minoranza, così da disimpegnare le attenzioni da riservare alla Cina. Un’America “veloce” anche nello scaricare all’esterno i problemi di polarizzazione e di leadership interna. E duttile nel modificare postura con l’altrettanto elastico rivale cinese promuovendo, appena chiuso il voto di metà mandato, l’incontro tra Biden e Xi a margine del G20 di Bali: probabilmente per scambiare la distensione su Taiwan con aree di cooperazione e iniezioni di investimenti che urgono al rilancio post-pandemico di Pechino, forse anche per ammansire il Cremlino insinuandogli il timore di una conventio ad excludendum. Ma al contempo chiedendo a Kiev di proferire di tanto in tanto la parola “negoziato”, per non benedire le aspettative degli alleati più russofobi in uno smembramento della Federazione russa, che procurerebbe un vuoto geopolitico disponibile alla Cina, allora sì in grado di insidiare il monopolio sul Pacifico dall’intera costa est dell’Asia: persino l’Orso, fiaccato quanto si vuole, serve a frenare il Dragone.
Nella “periferia” globale diverse nazioni guardano a Mosca come l’alfiere contro l’imperialismo occidentale – tanto più dopo aver scoperto che, da agosto, il corridoio del grano ha rifornito per oltre il 60% i mercati a nord-ovest. E mentre i Paesi -stan attendono di verificare se convenga ancora l’ombrello moscovita, la Turchia gioca d’anticipo sui riassetti misurandosi come potenza transcontinentale e transito nevralgico di nuove direttrici commerciali (cinesi) ed energetiche (russe, algerine, azere e qatarine).
E poi? Poi c’è l’Europa dei particolarismi intestini e perciò “lenta”, se non in retromarcia. Di certo sconfitta come soggetto politico unitario, incapace in 8 anni di minuetti diplomatici di scongiurare una cortina di ferro che ora la trova impreparata per le sfide del XXI secolo. E divisa: la ex locomotiva tedesca, fuor di concerto, cerca stampelle per un’economia azzoppata dal divorzio euro-russo; il vagone italiano si affanna a esibire patenti atlantiste in cambio di una residua sovranità interna; Parigi, aspettando che la bufera passi, presidia guardinga i vantaggi sui vicini; Varsavia, succursale Usa candidata nella leadership continentale, estrae dai torti del ’900 le rivendicazioni del refrain nazionalistico. Le piazze addirittura si contendono l’attestazione delle migliori istanze di pace, talune chiedendo più lanciarazzi tra canti partigiani e rune Wolfsangel, accese da imberbi interventisti tornati dal 1914 per invocare sui palchi l’igiene della distruzione (sic!) contro ciò che ostacola il migliore dei mondi possibili: a immagine e somiglianza di quello euroatlantico. Ma se le grammatiche della velocità autoreferenziale e degli egoismi frenanti sono il marchio del modello galvanizzante, la palingenesi già trasmette un disagio poco attraente, non facile da esportare. Almeno pacificamente. Perché se l’unione fa la forza, se gli amici (lenti o veloci che siano) si vedono nel momento del bisogno…

Giuseppe Casale*

*Pontificia università lateranense

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Fonte: Sir