La scomparsa della morte. La percezione della morte nei ragazzi

La nostra società predilige soffermarsi sugli aspetti più spettacolari della morte, guardandosi bene dall'immergersi nel significato stesso dell'evento.

La scomparsa della morte. La percezione della morte nei ragazzi

Chiuse le festività di Ognissanti e la ricorrenza dei cari defunti, viene spontaneo dedicare un piccolo spazio a una riflessione che riguardi gli adolescenti e la percezione che essi hanno della morte.

Nei giorni scorsi abbiamo letto le consuete considerazioni sulla estraneità culturale della festa di Halloween e sul fatto, invece, essa faccia così tanta presa sui nostri ragazzi (e non solo).

Al di là dei complicati approfondimenti socio-antropologici e dei riferimenti religiosi, pare evidente che la nostra società prediliga soffermarsi sugli aspetti più spettacolari e scenografici della morte, guardandosi bene dall’immergersi in meditazioni legate al significato stesso dell’evento.

Non ci vogliamo avventurare in facili moralismi, semplicemente provare a misurare la temperatura ai nostri tempi e constatare come tutti noi ci siamo liberati, gradualmente, di quel complesso sistema fenomenologico (per dirla con parole altisonanti) legato al momento del trapasso.

La morte occupava nelle civiltà antiche un momento fondamentale, certamente anche per il fatto che arrivava allora in maniera inaspettata rispetto a oggi e mieteva numerose vittime pure fra i giovani. Col passare dei secoli la scienza e la tecnologia hanno mitigato questa tendenza: nelle civiltà del benessere tendenzialmente si muore da anziani e in seguito a malattie legate all’invecchiamento. La morte, quindi, è stata assai ridimensionata, per lo meno in termini numerici. Resta tuttavia un evento importante e, soprattutto, un mistero. La nostra vita si muove attraverso due punti cardinali, che sono appunto la nascita e la morte, e all’interno di questi orizzonti (contrapposti?) l’umana esistenza dovrebbe acquisire senso.

Eppure, negli anni, si è tendenzialmente occultato tutto ciò che riguarda la morte, perché sgradevole, spaventoso e ignoto. Ci siamo perfino interrogati a lungo se fosse il caso di nascondere ai bambini l’esistenza delle cerimonie funebri e di tutti i riti legati all’estremo saluto dei cari.

Perché? Probabilmente perché, privata della sua dimensione spirituale, la morte stona con il mondo che via via abbiamo costruito intorno a noi e ai nostri figli. Stride con l’edonismo imperante, come pure tutte le manifestazioni legate all’invecchiamento. Siamo impegnatissimi a nascondere rughe, capelli bianchi, decadimenti del corpo. Abbiamo perfino dismesso un certo tipo di abbigliamento, troppo “anziano” e antiquato. La morte, davvero, appare sempre di più un corpo estraneo. Una fastidiosa “pratica” che non siamo ancora riusciti, del tutto, ad archiviare.

Ai nostri adolescenti abbiamo trasmesso questo.

Peccato, perché invece anche il pensiero della morte – collocato in una opportuna prospettiva – potrebbe restituire la giusta rotta a questa deriva educativa a cui assistiamo. Basterebbe lasciarle il giusto peso, come monito e anche come traguardo di una vita che non va sprecata o fraintesa.

Gli antichi lo dicevano: il peso della vita dipende dal peso della morte. Anche il sentimento empatico e la compassione sono legate all’ascolto dell’altrui dolore. Soprattutto la morte è ciò che dovrebbe fare da contraltare a quelli che la Morante definiva le nostre “futili tragedie”.

In un articolo di qualche tempo fa lo psichiatra Vittorino Andreoli, affermava che “insegnare la morte, descriverla, parlarne, non significa affatto fare un trattato né di filosofia né di teologia, ma se ne può parlare proprio attaccandosi a quel nonno che non c’è più, ma diventa anche una maniera per poter recuperare il significato dell’amore, dell’amore appunto come qualcosa che serve persino a superare quel limite della fine, della morte”.

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Fonte: Sir