Le pressioni sulla Casa Bianca: la guerra, il Midterm e il malessere americano

Se la Casa Bianca non ha mai nascosto l’obiettivo di dividere Russia ed Europa per meglio concentrarsi sul rivale cinese, bisogna d’altronde osservare il clima in cui gli Usa si preparano al voto.

Le pressioni sulla Casa Bianca: la guerra, il Midterm e il malessere americano

In seno alle teorie delle relazioni internazionali, all’attenzione neorealista sulle strutture dei rapporti di forza tra gli Stati il realismo neoclassico aggiunge la valutazione degli attributi interni (regime politico, subculture ideologiche, variabili socioeconomiche, ecc.) atti a influenzare la politica estera dei rispettivi governi. A pochi giorni dalle elezioni di medio termine negli Usa, simile approccio di analisi sembra alquanto utile a comporre i fattori di incertezza nello scenario mondiale.

Se la Casa Bianca non ha mai nascosto l’obiettivo di dividere Russia ed Europa per meglio concentrarsi sul rivale cinese, bisogna d’altronde osservare il clima in cui gli Usa si preparano al voto. I sondaggi mostrano un’opinione pubblica non del tutto coesa sulla linea nella questione ucraina. Preoccupano le stime sull’economia, quindi l’inflazione, i contraccolpi fiscali delle spese sostenute e le ricadute sociali. Ma il malessere è più radicato, stante la polarizzazione neotribale che esaspera il conflitto tra valori non negoziabili, mentre le dispute divisive sulla “religione civile” innescano micce presso originalisti e progressisti di varia specie, dalle élites al popolo minuto. Non pochi gruppi temono, più che gli esterni, i nemici interni dell’American Way, intesi come minaccia esistenziale per la democrazia. Al punto che le tensioni tra integrati e apocalittici, laicisti e confessionali, centralisti e localisti registrano una crescente disponibilità all’insurrezione.

Il trumpismo è solo un aspetto delle turbolenze che attraversano anche le istituzioni. Se le urne dovessero determinare il cosiddetto “governo diviso”, taluni paventano un blocco di inedita resistenza tra Presidente e Congresso. Un segnale è dato dai 57 deputati repubblicani che sinora hanno puntualmente votato contro le forniture d’armi all’Ucraina. E la quota di contrari è aumentata in occasione dell’ultimo stanziamento di 12 mld. Ciò fa presagire una dura opposizione sulla politica estera, riducibile solo in cambio di ardue concessioni all’agenda conservatrice. Neanche il partito democratico è incondizionatamente schierato con Biden: l’appello di 30 deputati della sinistra liberal per una svolta diplomatica, sebbene ritirato, esprime un avvertimento. Assieme ai timori per l’escalation nucleare conta il disappunto per la distrazione militare di fondi utili alle riforme del welfare. Tra i dem v’è poi chi stigmatizza lo sperpero del soft power degli Usa, che rischiano di apparire una potenza soltanto da temere, non avendo più nulla da offrire se non la sua piattaforma egemonica.

Per indorare la pillola di altri 275 mln in armi verso Kiev e rassicurare anche chi, al Pentagono, teme lo svuotamento dell’arsenale accessorio, Blinken ha annunciato che il governo intende esternalizzare sugli alleati ulteriori sforzi di produzione bellica. Il che però significa gravare di più sul ventre molle europeo, dove Washington sarà chiamata presto o tardi a disciplinare le posizioni più arrembanti, a tutela dell’utile coesione tra i satelliti. Emblematiche le nuove frizioni tra Germania e Polonia: mentre Berlino tenta di contenere l’effetto boomerang delle sanzioni investendo sulla presenza cinese nei suoi porti, Varsavia approva una legge per chiedere altri 300 mld per i danni di guerra dal ’39 al ’45. Spingendosi, per bocca del governatore della banca centrale, a denunciare un piano tedesco per riprendersi i territori assegnati alla Polonia comunista. Il tutto innaffiato dal bicchiere di benzina versato sulle incandescenze Nato-Russia da un dibattito interno che rilancia l’idea dello smembramento della Federazione russa, già caldeggiata dai neocon degli anni ’90 e accarezzata ancora nel 2011 da alcuni interventi di Hillary Clinton.

Nel frattempo il neorieletto Xi Jinping, con una lettera gratulatoria al National Committee on Usa-China Relations, ha invitato gli Usa a considerare la Cina un’opportunità per lo sviluppo e la stabilità globale: il primo passo per collaborare, da pari a pari, nell’interesse dell’umanità. Di rimando Biden, affermando di non cercare lo scontro, ha espresso la necessità di mantenere il vantaggio militare su Pechino. In effetti, il confronto con le parole di Xi al Congresso del Pcc lascia scorgere nel tono conciliante un messaggio ad auditores, forse con due finalità: spuntare il tema elettorale prediletto da Biden (la minaccia cinese) e mettere in mora gli Usa agli occhi del mondo, dando risalto a una Cina dal volto rassicurante. Improbabile perciò che si preannunci il benservito al Cremlino.

Dal canto suo anche Putin al Valdai Club, citando Solzhenitsyn (la cecità da complesso di superiorità) e Dostoevskij (la libertà che prelude al dispotismo), ha auspicato relazioni di buon senso con l’Occidente, quantunque incline a tradire la patente liberale quando si pone al di sopra delle regole e pretende di omologare identità e interessi altrui a un livellamento materialistico funzionale alla regia unipolare.

Ovviamente ciò non basta a fare breccia nei settori elettorali statunitensi pur sensibili a certi temi, ma trova una Casa Bianca alle prese con pressioni che di fatto ingiungono un cambio di passo sagace non meno che prudente.

Giuseppe Casale

(Pontificia Università Lateranense)

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Fonte: Sir