Migranti, il permesso per calamità potrebbe già regolarizzare gli stranieri?

Una parte degli avvocati, esperti di immigrazione, pensa ad applicare il permesso, previsto dal decreto Salvini, per la situazione legata al coronavirus. Lo Faro: “Una possibilità, permette di lavorare e iscriversi al servizio nazionale”. Zorzella (Asgi): “Temporaneo e non convertibile, può diventare una trappola”

Migranti, il permesso per calamità potrebbe già regolarizzare gli stranieri?

Nella maggioranza di governo si cerca la quadra sulle misure che dovrebbero permettere la regolarizzazione di una parte dei circa 600mila migranti irregolari, presenti sul territorio italiano. Si media sui tempi dell’eventuale permesso di soggiorno (6 mesi o tre mesi) e sui settori di applicazione (agricoltura e lavoro di cura). Intanto una parte dell’avvocatura specializzata nel diritto dell’immigrazione sta pensando di chiedere un permesso speciale per calamità naturale causata dalla pandemia in corso, per regolarizzare chi è già sul territorio. Ma la proposta divide, c’è chi parla di un’opportunità da sfruttare e chi di una vera e propria trappola.
Il permesso di soggiorno per calamità naturale è previsto dall’articolo 20 bis della legge 132 del 2018, il cosiddetto decreto sicurezza o decreto Salvini. E fa parte dei permessi speciali nati in sostituzione della protezione umanitaria. In particolare, il  permesso viene rilasciato allo straniero se il  paese d’origine versa in una comprovata situazione di “contingente ed eccezionale calamità naturale” tale da non consentire il rientro in condizioni di sicurezza. Ha durata di 6 mesi (rinnovabile per altri 6), è valido solo in Italia, consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in nessun’altra tipologia di permesso di soggiorno. “E’ una possibilità, alcuni miei assistiti hanno fatto domanda - spiega Emanuela Lo Faro, avvocata a Catania -. Non possiamo per forza aspettare il  permesso di soggiorno definitivo, se i decreti flussi non ci sono e la regolarizzazione è difficile, questa può essere un’opportunità. Va detto alle persone che si tratta di un permesso temporaneo, ma per chi è irregolare è meglio avere un permesso come questo e lavorare che rimanere in clandestinità. Anche perché questa tipologia di permesso permette anche l’iscrizione al servizio sanitario nazionale”. Lo Faro sta seguendo diversi casi di persone che arrivano dal Marocco, la Mauritania e l’Albania. “Il problema è che le questure devono accertare lo stato di calamità nel paese di origine. Nello specifico vedere chi ha chiuso le frontiere a causa del coronavirus, ma non sempre ci rispondono - aggiunge -  per questo ho chiesto al Dipartimento Libertà civili del ministero dell’Interno di fare chiarezza e permettere il rilascio di questi permessi. Dopodiché se dovesse esserci la regolarizzazione si può rinunciare al permesso di calamità e regolarizzarsi in altro modo”. 
La proposta di utilizzare il permesso di calamità non convince invece Nazzarena Zorzella, avvocata e membro dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione.  “Il vero problema è che questo permesso di soggiorno non è convertibile, dura 6 mesi, più altri 6 di rinnovo se permangono le condizioni di calamità, ma credo che contribuisca a precarizzare ancora di più la condizione delle persone. Se non è trasformabile in permesso di lavoro metti il lavoratore in una trappola. Dobbiamo uscire dalle logiche della regolarizzazione a termine e utilitaristica, che lascia indietro il tema dei diritti - aggiunge -.  Le persone così restano in una condizione di  precarietà e ricattabilità. Come Asgi abbiamo fatto una proposta completa: pensiamo che sia discriminatoria una regolarizzazione per settori, ma anche che bisogna  svincolare la posizione del lavoratore da quella del datore di lavoro, permettendo anche permessi per ricerca lavoro. Più della metà dei lungo soggiornanti che ci sono oggi in Italia sono nati con le regolarizzazioni. Oggi abbiamo una normativa che crea irregolari, dobbiamo chiederci a chi giovi e come intervenire. Il diritto non è calamità, non è una concessione”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)