Nel vuoto, per incontrare la propria scintilla. Nella solitudine siamo nudi con noi stessi, come il re nella famosa fiaba

Nel vuoto è possibile incontrare la nostra scintilla divina, tenendo a bada l'inquietudine che caratterizza la nostra umanità.

Nel vuoto, per incontrare la propria scintilla. Nella solitudine siamo nudi con noi stessi, come il re nella famosa fiaba

Ma è proprio vero che soltanto nella solitudine possiamo incontrare noi stessi? E la solitudine, intesa come vuoto, esiste davvero? E soprattutto siamo in grado di sostenerla?
Questi alcuni degli interrogativi di questi giorni. Sono domande individuali, ma condivisibili con i familiari, con gli amici e anche con i figli. Soprattutto sono domande che possono trasformarsi in opportunità, anche educative.
In molti, moltissimi di noi c’è una difficoltà oggettiva nell’affrontare la solitudine, probabilmente perché quello che di essa ci atterrisce è il senso di vuoto che reca con sé e anche la potenziale immersione nell’io profondo, che è alla base del nostro esistere.

Non è facile confrontarsi con se stessi. Lo sanno bene gli adulti e iniziano a comprenderlo i ragazzi proprio nell’età dell’adolescenza, quando emerge la coscienza di se stessi e tutte le criticità che vi albergano. La nostra imperfezione, le nostre fragilità e le nostre manchevolezze sembrano stagliarsi più nitide nello spazio vuoto, sono identificabili e quindi riconoscibili.

Nella solitudine siamo nudi con noi stessi, come il re nella famosa fiaba. E siamo chiamati a dialogare col nostro presente, un tempo che tendiamo a trascurare o, per meglio dire, a rinnegare. Forse perché spesso è deludente, non come lo avevamo immaginato o desiderato.

Ciascuno esamini i propri pensieri – scriveva Blaise Pascal – : li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente o, se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali”.
In più la solitudine chiede di essere visitata con attenzione. Ed ecco un altro grande tema di questi ultimi anni: l’esercizio dell’attenzione. Gli insegnanti ci si rompono la testa nelle classi con la difficoltà di mantenere l’attenzione dei propri studenti. In realtà il problema non riguarda soltanto i nostri giovani, si tratta proprio di un’incapacità che contraddistingue sempre di più la nostra epoca. Qualcosa di cui Simone Weil parla ne “L’attesa di Dio”, la filosofa annotava “nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica”. E aggiungeva: “Questo qualcosa è molto più vicino al male di quanto non lo sia la carne. Ecco perché, ogni volta che si presta veramente attenzione, si distrugge un po’ di male in sé stessi”.

Quel male è rintracciabile, però, soprattutto nelle strutture “materiali” dentro le quali ci siamo imprigionati, nell’illusione di proteggerci da noi stessi.
L’attenzione poi è la lente che ci permette di separare i pensieri irrilevanti da quelli essenziali. Quindi nella solitudine torniamo alla nostra essenza. “Il vuoto non è il nulla”, diceva Yves Klein che dedicò il suo percorso artistico alla “smaterializzazione” della realtà. Nel vuoto è possibile incontrare la nostra scintilla divina, tenendo a bada l’inquietudine che caratterizza la nostra umanità.

Nel vuoto poi possiamo iniziare la nostra autentica rivoluzione, è un viaggio iniziatico che parte con la perdita dell’io “strutturato” e con il momento filosofico della contemplazione.
Incoraggiamo i nostri giovani a compiere questa rivoluzione.
Ci piace pensare all’immagine di Yves Klein che ritrae un uomo che si getta nel vuoto: non è un salto verso la morte, ma un impavido gesto che conduce alla libertà.
Quel volo è la rappresentazione di una nuova nascita.

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Fonte: Sir