Referendum, il “taglio” colpirà chi arriva dalla società civile?

Domenica e lunedì alle urne per confermare o meno la riduzione da 915 a 600 del numero dei parlamentari: nell’associazionismo grande scetticismo, Arci e Acli si schierano per il “no”. Con Andrea Sarubbi e Luigi Bobba uno sguardo alle possibili conseguenze

Referendum, il “taglio” colpirà chi arriva dalla società civile?

Da un lato un Parlamento più snello e meno dispendioso, dall’altro una crisi della rappresentanza e un colpo alla democrazia. E’ agli sgoccioli la lotta di argomentazioni fra i sostenitori del “si” e del “no” al referendum costituzionale sulla riduzione del numero di parlamentari, che si terrà domenica e lunedì prossimi. Niente necessità di raggiungere il quorum, per una riforma che nell’ultimo dei quattro passaggi parlamentari ha di fatto ottenuto l’unanimità della politica ma che, man mano che si avvicina il voto, vede moltiplicarsi le voci contrarie.

All’apparenza spacciato, il “no” spera in una rimonta che avrebbe del clamoroso, e fra le voci contrarie ci sono, in modo chiaro, anche quelle di alcune delle più conosciute organizzazioni del terzo settore.
Come l’Arci, che ha da tempo invitato soci e simpatizzanti a dire “no” ad una riforma che “non migliorerà la qualità delle istituzioni né degli eletti” e rappresenta “una scorciatoia demagogica che non agisce sui nodi qualitativi della rappresentanza politica ma sui suoi aspetti quantitativi”. “Ci sembra sbagliato – è la posizione - voler procedere ad una contrazione così significativa della rappresentanza parlamentare nel nostro Paese, che contribuirebbe ad accentuare le debolezze di un sistema che ha bisogno di cura e di una profonda revisione, non certo di scorciatoie”. 

Idee che trovano riscontro anche in casa Acli, dove una pronuncia a livello nazionale è attesa a breve ma dove a livello locale sono già numerosi gli inviti a votare "no": le Acli di Milano, per esempio, mettono in evidenza come in ballo non ci sia solo un taglio di parlamentari e un risparmio di soldi pubblici, ma gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato e la rappresentanza reale di tutto il Paese. La preoccupazione è che con il “si” si vada dunque verso un “superamento della democrazia rappresentativa e parlamentare e l’avvento di un sistema alternativo di democrazia autoritaria”, in cui nei fatti il potere sarà in mano a pochi eletti. Una preoccupazione rafforzata dal fatto che da tempo l'attività del Parlamento è ridotta dall'intraprendenza dei governi, che impongono sempre più spesso il voto di fiducia ai propri decreti o disegni di legge.

Se vince il “si”, come cambia l’identikit del parlamentare?

Ma al di là degli aspetti di sistema complessivo, il referendum solleva anche una questione molto concreta: che tipo di rappresentanza avremmo se vincesse il “sì”? L’identikit dei parlamentari muterebbe radicalmente, in presenza di meno seggi disponibili? Una risposta che riguarda, nello specifico, proprio quelle figure che in ogni legislatura arrivano in Parlamento essendo presentate come provenienti dalla cosiddetta “società civile”.

Sarubbi: “Un Parlamento più agile, ma a saltare saranno i ‘battitori liberi’”

Un ragionamento di questo genere lo ha fatto, alcuni giorni fa, in una sua riflessione pubblicata qui, Andrea Sarubbi, deputato Pd nella legislatura 2008-2013, che legò la sua esperienza parlamentare (oltre che all’hashtag #opencamera e alla voglia di trasparenza dei lavori parlamentari) a numerosi temi di carattere sociale, a partire dal tema della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. “Nei cinque anni da deputato – ammette Sarubbi - ho sofferto spesso i ritmi lunghi dell’attività parlamentare, sia in Aula che in Commissione. Più volte ho pensato, forse l’ho anche detto pubblicamente, che l’ideale sarebbe stata una Camera da 400 persone, con una trentina di componenti (anziché gli attuali 45) per ogni Commissione permanente: questo avrebbe portato a un confronto più serrato e più agile sui provvedimenti, a una gestione dell’Aula meno elefantiaca, a un risparmio di interventi fatti col copia-incolla tanto per restare agli atti. Quota 400 mi sembrava un giusto compromesso tra rappresentatività ed efficienza e lo penso ancora”. Un motivo per votare “sì” al referendum, insomma, a cui però si affianca subito un motivo per votare “no”.“Purtroppo – scrive Sarubbi - in Parlamento si entra (e si resta) per cerchi concentrici: prima i leader, poi le persone più vicini ai leader stessi, poi i fedeli al partito, quindi i cosiddetti battitori liberi. Quelli che il PCI di una volta chiamava gli indipendenti di sinistra e che rappresentavano un valore aggiunto. Oggi sono gli esponenti della società civile: tra i quali ci sono certo alcuni nomi spot, tanto buoni per la campagna elettorale quanto inadeguati al ruolo ricoperto, ma ci sono pure risorse notevoli, persone che arrivano in Parlamento con uno sguardo diverso e un atteggiamento diverso. Ecco, dal mio punto di vista – dice l’ex parlamentare - temo fortemente che, con il taglio di un parlamentare su tre, saranno proprio loro a saltare, perché ogni leader e ogni gruppo politico cercherà di difendere se stesso. Mi si obietterà che è un problema di legge elettorale, non di riforma. Ma la legge elettorale la scrive chi in Parlamento c’è già, e sinceramente, se anche cambiassero i criteri di assegnazione dei seggi, non vedo grandi cambiamenti all’orizzonte nei criteri di scelta dei candidati”. E questo, quindi, sarebbe un motivo per votare “no”. La chiosa di Sarubbi è tutto un programma: “Aspetto un terzo motivo per decidere cosa votare. Al momento, infatti, ho più di un dubbio”.

Bobba: “Manca un disegno d’insieme, territori a rischio abbandono”

Fra gli esponenti della società civile – e del mondo del terzo settore - che in passato hanno avuto un ruolo politico c’è sicuramente Luigi Bobba: presidente nazionale delle Acli, portavoce del Forum del Terzo Settore dal 1997 al 2000, passato alla politica da senatore e da deputato, fino a ricoprire il ruolo di sottosegretario al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali nei governi Renzi e Gentiloni (2014-2018), seguendo in prima persona la lunga partita della legge di riforma del terzo settore.“Il rischio più grosso – dice oggi da ex parlamentare - che vedo in questo referendum, per come è nato e per come è stato presentato, è che si accompagni ad un’onda in cui tutta la dimensione della politica viene travolta. E non credo sia un buon segnale per la democrazia, perché se gli organi rappresentativi vengono delegittimati perché costosi, inutili e farraginosi, allora c’è qualcosa di grave”.
“Dall’altro lato, venendo anch’io non solo dal mondo associativo ma anche da un territorio di piccole dimensioni com’è la mia realtà provinciale, ho il timore – continua - che questa riforma porti a far sì che questi territori vengano dimenticati dall’azione politica. Pensiamo a tutto il tema della banda larga e di come oggi potrebbe essere uno strumento per far rifiorire il paese, ma se poi i mille borghi di questo paese non sono collegati alla fine rimane solo una discriminazione”.Insomma, “diversamente da quella del 2016 – dice Bobba - qui non pare esserci un disegno di insieme di funzionamento più efficace, più moderno e anche più capace di esprimere il meglio delle organizzazioni, delle autonomie sociali e territoriali. La riforma del 2016, modificando radicalmente la composizione e i compiti del Senato in qualche modo creava un peso e un contrappeso: la rappresentanza generale e quella delle autonomie territoriali e sociali. Qui invece – conclude - c’è un puro e semplice taglio ma senza un disegno di insieme”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)