Se la canzone fa stare bene. Blasco non è il solo a rappresentare l’armata dei poeti che continuano a mettere in musica le parole

Ci vorrebbe un libro intero, e non basterebbe, per ricordare come la canzone abbia non solo accompagnato, ma anche aiutato.

Se la canzone fa stare bene. Blasco non è il solo a rappresentare l’armata dei poeti che continuano a mettere in musica le parole

I settant’anni del Comandante sono stati ricordati da piattaforme, giornali, cartacei e no, tv, da tutti quelli che sono passati attraverso gli anni ottanta accompagnati da una colonna sonora che si chiama “Una canzone per te”, “Sally”, “Gli angeli”. Soprattutto quest’ultima ha fatto pensare molta gente ad un referendum per l’abolizione delle etichette, tipo rock, canzonette, genere di consumo, musica leggera e musica seria ecc ecc. Perché gli angeli che ricordavano a tanti quelli di Wenders che volavano e si fermavano nel cielo sopra Berlino e che erano diventati l’immagine del dolore di Blasco per la perdita di Maurizio Lolli, amico e manager, portato via a 43 anni dalla malattia, andavano oltre gli -ismi dei catalogatori a tutti i costi. Le parole del dolore diventano tutt’uno con l’assolo finale del chitarrista Michel Landau, con distorsioni lancinanti che quel dolore te lo fanno vivere per un attimo dentro, quando le parole non saprebbero.

Ma Blasco non è il solo a rappresentare l’armata dei poeti che continuano a mettere in musica le parole, per farne un tutt’uno, continuando la strada dei trovatori, di alcuni mistici, dello stesso Dante le cui poesie venivano messe in musica e cantate, come ricorda l’episodio del musico Casella, che nel secondo canto del Purgatorio intona la dantesca “Amor che nella mente mi ragiona”.

Il Nobel “scandaloso” a Bob Dylan, che andava in giro da ragazzo a cantare le sue poesie, starebbe lì a provarlo, sempre che ci fosse bisogno dell’accademia per sapere che è vero. Leonard Cohen ci ha lasciato tre tra le più belle poesie, anche queste cantate, al femminile: “Joan d’Arc”, “Suzanne”, e soprattutto “Seems so long ago, Nancy”, il canto struggente di una solitudine senza difesa e riparo.

E, diciamocelo, anche da noi non è che il povero Luigi Tenco, e poi De Gregori, Venditti e la cosiddetta scuola romana, e ovviamente il Faber, e la coppia Dalla-Roversi siano stati a guardare (leggi: imitare), tutt’altro. Lucio Dalla e lo scrittore Roberto Roversi ci hanno lasciato capolavori da antologia scolastica (e in effetti molti dei nomi sopra ricordati adesso su quelle antologie finalmente cominciano a fare capolino), anche quando la canzone non è esattamente di impegno politico come “Tu parlavi una lingua meravigliosa”, in cui due antichi innamorati si incrociano casualmente “in una piccola stazione”: l’unico ad accorgersene è lui, che, sopraffatto dalla commozione, ma anche dalla consapevolezza dell’impossibilità di riprendere l’antico filo del tempo vorrebbe “chiamarla, dirle: le volpi con le code incendiate/ non parlano, ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore”, finché il treno arriva e “la mia ombra sale, parte, scompare”. Il canto della memoria e del dolore che si fa largo nelle parole: e, a proposito della Memoria con la maiuscola, come non ripensare alla stupenda “Canzone del bambino nel vento” di Guccini che diverrà un vero e proprio inno contro la follia razzista con il titolo più esplicito di “Auschwitz” attraverso le chitarre elettriche dell’Equipe 84?

Ma se vogliamo restare nel campo del ricordo di chi non c’è più è doveroso citare una canzone ingiustamente dimenticata, “Ora che sono pioggia”, di Antonello Venditti, in cui è una donna scomparsa a parlare di sé, ora che “come il mare vado via/ che la lunga strada del tempo/ io l’ho vissuta”.

Come si vede, non sono solo canzonette, e a proposito di Bennato, la prova provata è la sua “Un giorno credi” in cui il cantautore napoletano parla a chi è preda della depressione: “Fatti forza e va incontro al tuo giorno/ non tornare sui tuoi soliti passi”. E ricordiamoci che lo scettico, dolce anarchico De Andrè ci ha consegnato una nuova interpretazione degli apocrifi con “La buona novella”, soprattutto il giustamente famoso “Testamento di Tito” che canta la disperazione e il dolore senza senso (“Con un coltello piantato nel fianco/ gridai la mia pena e il dolore”); senza dimenticare che De Gregori con “Festival” ci ha lasciato uno struggente ricordo di Luigi Tenco, vittima del totem sanremese: “lo portarono via in duecento/ peccato fosse solo quando se ne andò”.

Ci vorrebbe un libro intero, e non basterebbe, per ricordare come la canzone abbia non solo accompagnato, ma anche aiutato nei punti più accidentati di strade che chiedevano non grandi sistemi, ma parole, magari semplici, ma che venissero da dentro, il che fa la grande, immensa differenza.

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Fonte: Sir