Senza volerlo abbiamo progettato la “deportazione” di chi è vecchio

I meccanismi dedicati all'ultimo tratto di vita dei nostri anziani non possono restare anonimi, meccanici, disumani. Il coronavirus offre un’occasione drammatica per ripensare alle scelte fatte

Senza volerlo abbiamo progettato la “deportazione” di chi è vecchio

In questi giorni si è fatta intensa la discussione sulle morti di persone anziane nelle residenze a loro dedicate. Sulle responsabilità di una tale decimazione, diverse Procure d’Italia hanno aperto fascicoli contro ignoti. Non si tratta di verificare se sono state approntate le doverose misure di isolamento. Il coronavirus offre un’occasione drammatica per ripensare alle scelte fatte, che mai nessun Tribunale processerà.

L’attenzione futura è per lo schema che abbiamo costruito negli ultimi anni: spazi riservati a persone che “non possono” rimanere nelle loro case, offrendo loro un’alternativa. Sembrava una soluzione all’avanguardia: spazi adeguati, personale addetto, cibo controllato: il dubbio è che, anche senza volerlo, abbiamo progettato la “deportazione” di chi è vecchio. Gente non più utile che non può essere d’impiccio a chi ha da fare.

Abbiamo offerto strutture che tolgono colori, sapori, odori, utensili, foto, ricordi. Abbiamo tolto loro la casa. Gli operatori, pagati con contratti al minimo, diventano robot freddi e veloci. I loro compagni di stanza specchi della fine. Lo schema è diventato di comune sentire: ha coinvolto tutti. Abbiamo costruito residenze protette e infermerie per ognuno, tutti compresi, purché vecchi e malandati. Eppure non era così; i nostri nonni sono morti nei loro letti. Tornare al passato non serve. Pensare al futuro è doveroso.

I meccanismi dedicati all’ultimo tratto di vita non possono restare anonimi, meccanici, disumani. Terribile lo schema di titolarità che passa la gestione dall’ente territoriale a qualche partecipata e infine alle cooperative. Nemmeno fossero pacchi da smistare o semplici destinatari di pubblicità. Eppure costringiamo le persone a passare anni in una stanza, in compagnia di chi sta come o peggio di te. Le giornate in strutture enormi per garantire l’economia di scala, con ritmi di sonno e sveglia programmati, con cibo talmente igienico da diventare vomitevole non sono prospettiva di vita, ma semplice triste sopravvivenza, dimostratasi nemmeno sicura.

Il progetto costruito è da smantellare: almeno non cumulare gli anziani in numero eccessivo, personalizzare la presa in carico; coinvolgere qualche familiare, creare un clima comunitario. Molti non finirebbero all’ospizio, se si sostenesse, anche economicamente, le famiglia d’origine, gestendo le odiate, ma utili badanti. I nostri cari hanno diritto a godere della memoria della loro vita. Hanno offerto a noi il benessere di cui godiamo; restituire quanto ricevuto è dovere. Il problema va al di là della seconda e della terza fase del Covid-19. Importante non dimenticare la lezione.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)