Serve un cambio di passo a Roma e a Bruxelles

La Brexit alle porte richiama l'intera Unione alle sue responsabilità. È tempo di disegnare un progetto convincente per il futuro del continente. E l'Italia ha bisogno di uscire dalla contingenza dei problemi per farsi carico delle attese di una società sfibrata. Sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto

Serve un cambio di passo a Roma e a Bruxelles

L’anno che abbiamo alle spalle si è chiuso con due cattive notizie, i cui frutti si riverberano cupamente sul nuovo anno che inizia. Del fallimento, l’ennesimo, delle trattative per mitigare l’innalzamento climatico parliamo nelle pagine che seguono. A nulla sono servite le piazze colorate dei giovani, né l’impatto mediatico di Greta Thumberg, quando c’è stato da mettere mano a interessi economici, rendite di posizione, equilibri geopolitici. Tutto rimandato alla prossima conferenza, e pazienza se milioni di persone soffrono sulla loro pelle gli effetti dell’innalzamento dei mari, di siccità devastanti, di disinvolti e predatori attacchi al patrimonio naturale del pianeta.

L’altra cattiva notizia è arrivata dalla Gran Bretagna, che ha conferito a Boris Johnson il mandato più pieno che potesse aspettarsi a traghettare il paese fuori dall’Unione Europea. Dal 1° febbraio, ha sottolineato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «il Regno Unito diventerà, con il Brexit, un Paese terzo, col quale vogliamo costruire un buon partenariato, nell’interesse reciproco». Dietro la cordialità diplomatica, c’è la presa d’atto di quel che nessuno a Bruxelles si augurava e che invece si è materializzato con una forza inaspettata dopo anni di inutili trattative.

Abbiamo di fronte un periodo transitorio, fino al prossimo dicembre, in cui definire le future relazioni. Ma per quanto grandi e gravi siano gli aspetti concreti della scelta inglese, ancor più enorme è il suo impatto simbolico. Non è un caso che dipanare il groviglio di questioni tecniche sia un’impresa estenuante: i padri fondatori dell’Unione, nel loro sogno di unità di un continente uscito con le ossa a pezzi dalla guerra, non avevano messo in conto che un giorno qualcuno potesse uscirne. E questo, semplicemente, perché un’Unione senza la Gran Bretagna – ma lo stesso varrebbe per la Spagna, per l’Italia, per ogni altro angolo del continente – non potrà più presentarsi come un continente unito. È un pezzo di storia fondamentale che sceglie di andare per un’altra strada: la terra di Re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda, la patria del sistema democratico parlamentare, l’ultimo baluardo di fronte all’aggressione nazista, l’approdo di milioni di emigranti che anche dall’Italia hanno costruito lì la loro vita… pensare l’Europa politica, culturale, economica senza la Gran Bretagna significa amputare una parte fondamentale della nostra identità. Come dimostra anche il fatto che l’inglese è l’unica lingua che oggi detiene lo status di “passaporto” per il mondo.

Ecco perché la fase transitoria che ci attende non dovrebbe servire solo a ragionare di tariffe e dogane. È scattato un campanello d’allarme troppo importante per poterlo trascurare. Il progetto di unità europea ha bisogno di essere riportato al centro della discussione, con il coraggio necessario a riformare quel che non funziona più e di indicare nuovi obiettivi. Cosa vuole essere l’Europa? Che valori intende mettere alla base della sua costruzione politica? Davvero non ci serve una Costituzione? E quale rapporto vogliamo avere con gli altri poli mondiali? Sono tutte domande che per troppo tempo abbiamo evitato di porci, o a cui abbiamo preferito non rispondere per quieto vivere.

Col primo febbraio, in ogni caso, possiamo oggi dire che una lunga pagina di storia si chiuderà e un nuovo percorso dovrà prendere forma per evitare quell’effetto “valanga” tante volte evocato. Senza uno slancio ideale, è facile prevedere che nazionalismi e sovranismi avranno poco alla volta la meglio anche al di qua della Manica. Magari stanno solo aspettando un leader che, come Boris Johnson, abbia il carisma, la forza retorica, l’energia necessaria a condurli alla meta.

Vale anche per l’Italia, come ha saggiamente ricordato il presidente Mattarella nel tradizionale discorso di fine anno alle alte cariche dello Stato, presidente del consiglio in testa. Quella citazione di Aldo Moro – «Anche se talvolta profondamente divisi, sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto» – basterebbe da sola a delineare l’orizzonte che il presidente indica all’Italia. La fragilità e l’eterogeneità del governo non possono essere una scusante per limitarsi a subire il corso degli eventi, ci sono problemi complessi da affrontare, ci sono trasformazioni veloci in atto che richiedono scelte, c’è un mondo giovanile che si affaccia con energie e domande nuove, che rivendica un diritto al futuro. E «il loro futuro – ha ammonito Mattarella – è oggi, qui, adesso». In quale Europa e in quale Italia vogliamo che maturi?

Non c'è futuro possibile senza Europa

«L’Europa è casa nostra, e costituisce l’ambito di integrazione essenziale per consentire al nostro Paese di misurarsi con questioni divenute – piaccia o meno – globali e che solo a questo livello possono trovare soluzioni efficaci, in un mondo i cui gli attori protagonisti hanno ormai dimensioni continentali».

Lo ha ribadito il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso al Quirinale in occasione della cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno. «L’Unione Europea ha avviato una fase di importante rifondazione, per la prosecuzione, con coraggio, di un processo di integrazione equilibrato e solidale; e per un ruolo più incisivo in ambito internazionale. Il nostro contributo sarà tanto più significativo quanto più la nostra presenza ai tavoli negoziali saprà essere qualificata nelle proposte e ferma nel sostegno di una visione che valorizzi gli interessi comuni».

Cooperazione allo sviluppo, la grande dimenticata

«A cinque anni dall’approvazione della legge 125, che si impegnava a rilanciare la cooperazione allo sviluppo, tanti impegni restano ancora sulla carta». Le Ong italiane puntano il dito in particolare sugli investimenti: «Tra il 2017 e il 2018 si è passati da 5,19 a 4,15 miliardi di euro e anche dal disegno di legge di bilancio 2020-2022 non arriva nessun segnale di ripresa”.

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