Dentro di noi: apprendisti maestri

Il tempo dell’attraversamento è il tempo giusto: il nostro.
È necessario un silenzio fatto di sogno e di attesa per affrontarlo.
Solo dopo accade il compimento, sempre in punta di piedi

Dentro di noi: apprendisti maestri

Un tratto di corda. Il primo tratto di corda: la prima arrampicata in libera. Con un maestro. Cosí si chiama, perché è necessario. Serve un maestro per ogni prima volta. E maestro è quella persona che ti parla con gli occhi: e poi ti lascia solo, affidato alla tua forza, al tuo convincimento, alla tua fiducia, verso te stesso. Perché maestro «… non è chi insegna qualcosa, ma chi ispira a dare il meglio di sé – scrive Paulo Coelho – per scoprire una conoscenza che già si possiede nella propria anima».

Va accarezzata la parete. Va amata la parete. Si comincia a conoscerla a distanza, prima di farla scivolare addosso al proprio corpo. Non accade, altrimenti. Non si sale, diversamente.
Arrampicare è un racconto, fatto di sguardi carichi di luce: riflessi bevuti per tempo, a lungo, con abbondanza. È necessario un silenzio fatto di sogno e di attesa: solo alla fine diventerà contatto, realtà, dove rispetto, trepidazione, temerarietà, carezza si impastano insieme.
Salire sulle terre alte è come cavalcare un cavallo, su cui ancora non si è saliti mai. Gli devi parlare. Da lontano, prima. All’orecchio, poi. Quindi, lo devi accarezzare: quasi a chiedere e ottenere il suo consenso.
Cosí accade in alta quota. Alla fine resta la consapevolezza che quella parete, come un purosangue, è e sarà sempre piú forte di te. Anche dopo l’impresa.
È come avvicinarsi in punta di piedi, anche se decisi all’impresa: ovvero, occorre prima impararne il nome; poi cominciare a sussurrarlo; finalmente, solo finalmente metterci sopra le mani, salirci e, soprattutto, ascoltarne la voce e raccoglierne la restituzione.
E accade l’incontro: una percezione che non si riesce a spiegare, che consegna qualcosa di sacro. Cosí accade: ciascuno lo sa. È accaduto: quella prima ascensione in libera sul gruppo del Nuvolau. La corda – sfuggita inspiegabilmente all’aggancio di chi mi aveva preceduto – era rimasta tra le mani, priva della sua sicurezza. Non restava altro da fare che andare avanti, anzi verso l’alto: solo, da solo. Il maestro non c’era: aspettava in vetta. La sicurezza nemmeno, andava costruita. L’audacia, andava messa alla prova in un gioco consapevole e temerario.
Questo accade. Sempre. Nella vita. Siamo tenuti in sicurezza, ma allo stesso tempo lasciati a noi stessi. E non c’è maestro che tenga, non ci sono istruzioni per l’uso che sortiscano effetto. Devi andare.
E lí, solo tu, tu solo puoi capire, interpretare, decidere, e dunque: agire.
Tutti ne hanno esperienza. Ciascuno avrebbe qualcosa da raccontare. Non mancano mai questi giorni, giorni che ti fanno conoscere e affrontare attraversamenti inediti, ma che sanno consegnare un unico messaggio: ascoltare e ascoltarsi, guardare e guardarsi; apprendere e intraprendere; riconoscere e osare.
Il tempo dell’attraversamento è il tempo giusto: il nostro. In quell’istante si apprende che «l’unico vero maestro – come ebbe a scrivere Tiziano Terzani – non è in nessuna foresta, in nessuna capanna, in nessuna caverna di ghiaccio dell’Himalaya … ma è dentro di noi». E se la vita ci insegna che siamo tutti apprendisti nel mestiere di vivere, forse appare evidente che in realtà diventiamo maestri proprio e solo quando non ci riconosciamo tali.
E ciò accade, di solito, nel momento esatto in cui, in corda doppia, si è pronti a scendere. E a risalire.

Germano Bertin

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