Autonomia, un bene per tutta l'Italia?

«È la prima volta che capita a livello nazionale e questo accade perché, nonostante siano passati più di cinque lustri, il Veneto non ha mai abbandonato l’idea di autonomia».
Mario Bertolissi, professore ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Padova, introduce con le sue riflessioni il nuovo numero di Toniolo ricerca dedicato alla governance multilivello del territorio: dall'autonomia regionale al ruolo degli enti locali.

Autonomia, un bene per tutta l'Italia?

Non si sbottona Mario Bertolissi, professore ordinario di Diritto costituzionale all'Università di Padova, sullo stato d’avanzamento della bozza di legge delega da proporre al Parlamento per accelerare la gestione autonoma di alcune materie che passerebbero dallo Stato alla Regione Veneto.
Non può sbottonarsi perché fa parte della delegazione veneta istituita per l’occasione, ma non ha esitazione nel dire che è «la prima volta che capita a livello nazionale e questo accade perché, nonostante siano passati più di cinque lustri, il Veneto non ha mai abbandonato l’idea. Anche altre regioni si sono mosse, è vero, ma non sono comparabili perché, pur attuando sempre l’articolo 116 terzo comma della Costituzione, perseguono condotte diverse».

Condotte diverse anche perché Lombardia ed Emilia-Romagna (le regioni che assieme al Veneto, lo scorso 28 febbraio hanno siglato l’accordo con il Governo, rappresentato dal sottosegretario agli Affari regionali, Gianclaudio Bressa, sull’autonomia differenziata) non hanno richiesto tutte e 23 le materie?

«Anche per questo, sì. Non si possono scartare a priori, ma a consultivo: solo dopo aver ragionato ed essere andati a fondo, si può capire quale materia può essere interessante da gestire o meno.

Il Veneto ha fatto una scelta di buon senso; adesso nella dinamica relazionale tra Stato e Regione vedremo se saranno tutte e 23 o di meno, certamente è una leale collaborazione, un confronto sereno e serio sapendo che il bene comune deve avere il suo rilievo predominante.

Sarà interessante poi capire come verrà “ritagliato l’abito sulla persona”, alla luce della morfologia del territorio veneto e del modello delle piccole imprese perché verranno sentiti i corpi intermedi, i sindacati, i portatori d’interessi e le associazioni. È l’atto costitutivo di un’esperienza di democrazia partecipata che non è male di questi tempi».

Quindi, in relazione agli attori coinvolti, si può immaginare un sistema che possa rispettare principi di governance multilivello, sussidiarietà e differenziazione tra i vari enti, oppure si rischia un accentramento su piccola scala?

«È l’aspetto più importante di questo percorso perché sì, ci sono le risorse, ma che energie ci sono? Quali programmi si intendono elaborare e realizzare? E come viene recepito questo possibile modello in Italia e all’estero? Il regionalismo differenziato chiede responsabilità, ma dimostra un minimo di vitalità perché genera dialettica, partecipazione e collaborazione tra i vari enti e competenze. E qui mi ricollego al referendum del 22 ottobre che è stata un’occasione per dare voce alla gente, uscendo dai salotti.

Non si è capito fino in fondo cosa è successo: una dimostrazione di civiltà e senso delle istituzioni che non si è colto, la gente è stata messa nelle condizioni di discutere tra pareri favorevoli e contrari. E questo è il sale della democrazia».

Nel dibattito nato a partire dal referendum, però, ci sono posizioni che parlano di “egoismo” da parte del Veneto, possibile capofila di un’azione replicabile da altre regioni con il rischio di “sgretolare” il paese.

«Se c’è qualcosa che sta sgretolando il paese è la sua complessiva inefficienza: senza voler puntare il dito verso gli altri, pensiamo al Veneto e alla storia del Mose. La gente si trova demotivata, i normali cittadini con i loro malati in casa, con i figli disoccupati o con i genitori stessi senza lavoro: questa è la vita normale, a questo dobbiamo pensare. E quindi proviamo ad andare controcorrente, il messaggio è “lasciate fare meglio e di più quello che sappiamo fare, perché siamo virtuosi in comparazione con quello che si fa altrove”. Anche nel Veneto ci sono problemi a livello sanitario, non lo metto in discussione, ma rispetto ad altre regioni siamo tra le migliori.

Spogliamo il dibattito dalle ruvidezze “di parte” e pensiamo alla Repubblica che ha bisogno di essere migliorata, con un approccio costruttivo: gli stati accentrati sono quelli meno efficienti, le democrazie più forti sono quelle federali. A patto, però, che siano davvero democrazie».

Nella trattativa con il Governo si parlerà inevitabilmente delle risorse finanziare necessarie per coprire le eventuali spese per l’amministrazione autonoma. È l’occasione per rilanciare la discussione sul residuo fiscale? 

«È un problema di giustizia sostanziale e riguarda l’allocazione territoriale delle risorse, che oggi non vengono distribuite tra i territori nel rispetto del principio di solidarietà ed eguaglianza. È un grande squilibrio che riguarda i cittadini, che siano veneti o della Calabria o dell’Abruzzo. Prendiamo i dati del 2016 della Ragioneria generale dello Stato sulla spesa statale regionalizzata: su base pro capite, contro una media nazionale di circa 3.600 euro a testa, gli abitanti delle Province autonome di Trento e Bolzano si sono visti destinare tra i 7.600 e gli 8.900 euro. 

Questa questione non riguarda il Veneto, ma il sistema generale nel suo complesso. La regione Veneto potrà metterlo all’ordine del giorno, ma certo non risolverlo da sola».

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