Cercando la casa perduta. I 100 anni di "Allegria di Naufragi" di Giuseppe Ungaretti

Cent’anni fa usciva “Allegria di Naufragi” di Giuseppe Ungaretti, considerata la grande madre dell’ermetismo italiano e l’inizio di un cammino verso il senso della vita.

Cercando la casa perduta. I 100 anni di "Allegria di Naufragi" di Giuseppe Ungaretti

Sulle benemerite attività editoriali italiane, che hanno portato alla diffusione di autentici capolavori, si dovrebbe organizzare almeno una mostra-convegno: per fare solo un esempio, cento anni fa – era il 1919 – l’editore fiorentino Vallecchi (Firenze era allora la capitale della cultura italiana) stampava uno dei libri-cardine della nostra letteratura: “Allegria di Naufragi” del trentunenne Giuseppe Ungaretti, che si era arruolato come volontario nella fanteria italiana per non sentirsi più esule e senza terra. “Allegria di Naufragi” segue di due anni un’opera poetica che aveva iniziato una rivoluzione nella letteratura: “Il porto sepolto”.

Anzi, voleva esserne una sorta di seconda edizione ampliata, ma rappresentò in realtà la definitiva affermazione di un nuovo modo di intendere la poesia. Non più i versi lunghi, prolissi e celebrativi di D’Annunzio, non più la retorica esibizione della propria cultura, ma anzi la sua riduzione all’osso, alla singola parola che provasse a dire profondità non raggiungibili con l’imitazione della vecchia poesia. È da qui che nascerà poi, negli anni Trenta, la corrente dell’Ermetismo, i cui rappresentanti vedranno, e giustamente, in Ungaretti il loro padre spirituale. È ne “Allegria di Naufragi” che si trova per la prima volta, con il titolo di “Cielo e mare” poi mutato nel più celebre “Mattina”, l’esempio più radicale ed estremo della rivoluzione ermetica: “M’illumino/d’immenso”.

Ma già nel titolo, che sembrerebbe un ossimoro, cioè una contraddizione, venivano messe insieme due cose che in realtà anche Leopardi aveva accostato nel verso finale dell’Infinito: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. “Allegria di naufragi” voleva significare la gioia di essere scampato alla tempesta, ma, e lo stesso Ungaretti lo aveva precisato, voleva rappresentare anche l’ebrezza del contatto con le forze della natura e qualcosa di più profondamente inserito nell’anima umana che Dante aveva messo bene in evidenza nell’episodio di Ulisse contenuto nel canto XXVI dell’Inferno: la sete di avventura di chi solo nel rischio della vita riesce a trovare il senso dell’esistenza.

Ma “Allegria di Naufragi” è anche altro: è soprattutto il riconoscimento del vuoto in cui si sente abbandonato l’uomo del Novecento. Nonostante le raffinatezze culturali che Ungaretti aveva assaporato nei suoi anni parigini a contatto con le avanguardie letterarie e pittoriche, nonostante il progresso tecnico, nonostante una cultura che aveva predicato la liberazione dalle “superstizioni” religiose, l’uomo si sente sempre più solo. Anzi, usa le scoperte della scienza per massacrare i suoi simili in guerre che vedono non più qualche centinaio di caduti, ma milioni di morti, anche tra la popolazione inerme. C’era qualcosa che non andava nell’uomo di quegli anni, che diventerà ancora più evidente dopo la seconda guerra mondiale con i campi di sterminio, i lager staliniani e la bomba atomica americana.

Era iniziata una ricerca radicale di senso che si era avvicinata al nulla anche con la riduzione del verso a poche povere parole, e che stava sfociando nell’incontro con quel Dio di cui si era sentita inconsciamente la presenza-assenza negli anni del vagabondaggio.

Marco Testi

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Fonte: Sir