Città metropolitana: Venezia o Veneto?

A quattro anni dall'entrata in vigore della Legge Delrio, emergono alcuni limiti identitari e geografici della città metropolitana di Venezia. Una realtà che dovrebbe dialogare con le altre dimensioni produttive del Veneto perché Venezia, da sola, non può rappresentare il Veneto stesso. L'analisi della docente Patrizia Messina in apertura del numero di maggio di Toniolo ricerca.

Città metropolitana: Venezia o Veneto?

L’entrata in vigore della Legge 7 aprile 2014, n. 56, la cosiddetta “Riforma Delrio”, ha aperto la strada a profondi cambiamenti sul piano del governo territoriale.
La legge, infatti, regolamenta le città metropolitane come nuovo soggetto amministrativo, trasformando le ormai ex Province in enti di secondo livello. Inoltre incentiva l’unione e la fusione dei comuni come ulteriore strumento di semplificazione e rafforzamento della governance locale.

Eppure, evidenzia Patrizia Messina, docente di scienza politica all’Università di Padova, «l’errore genetico di questa normativa sta nel fatto che tranne Roma che è monocentrica e accentratrice – ed è l’unico caso in Italia – le altre realtà sono aree policentriche dove le stesse funzioni metropolitane non sono racchiuse in una singola città».

Questo vale anche per il Veneto e per la città metropolitana di Venezia?

«Il Veneto più che mai rispecchia una caratteristica tutta italiana perché Venezia è la laguna e il mare, mentre l’entroterra è altro: persino i veneziani della laguna sono differenti dai veneziani della terraferma, tant’è vero che si continua a parlare di referendum sulla separazione di Mestre.

Se si guarda alle funzioni "metropolitane" prima che al contenitore che si è voluto creare con i 44 comuni, è evidente che sono da tutt'altra parte: il terziario avanzato è Padova, non il centro storico di Venezia.

Le funzioni decentrate sono conseguenza dell’economia diffusa e per questo è l’area del Veneto centrale che andrebbe “infrastrutturizzata” con logiche metropolitane o quanto meno di rete. La logistica, la sanità, la zona industriale, il terziario, l’università e il sistema bancario: tutto questo lo si trova nel triangolo Padova-Treviso-Mestre».

Ciclicamente, dunque, riaffiora quella sensazione secondo cui Venezia non può rispecchiare e trainare l’intera regione anche in relazione agli storici localismi veneti. La città metropolitana sarebbe dovuta essere altro?

«Venezia è un brand, il Veneto guarda a Venezia per la sua storia, ma Venezia non è il Veneto: quello produttivo, della piccola impresa, del terzo settore, non lo si trova nella laguna o nel centro storico, ma al più a Mestre o nel Miranese, aree che guardano e dialogano con il centro della regione.
Marco Polo è nato a Korcula, in Croazia, al tempo sotto il controllo di Venezia, e dico questo per ribadire la propensione verso l’Adriatico e non verso l’interno. Il ponte della Libertà che l’ha legata alla terraferma di fatto ha snaturato la storia della città: si entra dalla porta di servizio perché l’accesso principale era piazza San Marco con le barche.
Venezia oggi è respingente per i residenti e un'attrazione non regolamentata per i turisti, al pari di Disneyland. Per questo non può rappresentare una regione governata dai localismi, così forti da essere un problema per la frammentazione e la mancanza di cooperazione che determinano».

La città metropolitana non può essere “autosufficiente”, ma deve dialogare con le altre realtà venete. Considerando i flussi e gli spostamenti, come iniziare a disegnare una dinamica che possa mettere in rete cittadini, lavoratori, imprese?

«La rete efficiente non la crei se non c’è dialogo, la rete le fanno le persone. Se prevale una cultura localistica, competitiva, di sistemi contrapposti, come si fa? Jesolo, Cavallino, Bibione non sono riusciti a realizzare un unico ambito di destinazione turistica della costa veneziana come invece ha fatto la Riviera romagnola. È una frammentazione, ancora una volta.
E se parliamo di entroterra, il collegamento dev’essere con Padova e Treviso: sono i flussi pendolari a dirlo. Riviera del Brenta, area rurale e industrializzata, le città con i servizi, questo è il territorio che va messo insieme, questa è l’area metropolitana: un'area eterogenea, certo, ma con una sua omogeneità data dagli abitanti che già si muovono e hanno fatto rete.

È l’area vasta di rango metropolitano nella quale non c’è uno stacco netto tra agglomerati urbani e campagna. In qualunque altra parte del mondo questa zona sarebbe un’unica città, qui invece siamo 200 comuni e quattro province. Ma alla fine è la rete dei servizi che definisce lo spazio urbano».

Ma oggi, quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge Delrio, l’idea di far parte di una grande città è entrata nell’identità dei cittadini e delle amministrazioni dei 44 comuni o siamo ancora ben lontani?

«La città metropolitana sta ragionando con la logica dell’adempimento amministrativo. Aspetta di essere governata e si sta discutendo sul piano strategico. Però, ad esempio, non si può pensare che il sindaco di Venezia diventi in automatico sindaco della città metropolitana: devono essere i 44 i comuni a eleggerlo. Ovviamente nulla nei confronti di Luigi Brugnaro, ma così non si fa altro che acuire quella sensazione di centralizzazione e di un ente piazzato dall’alto. Per capirci: il presidente della Provincia di Padova non è il sindaco di Padova. Ecco diciamo che il punto debole è la Legge Delrio: che è stata sì fatta male, ma è stata implementata perfino peggio».

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