Come comunicare la crisi climatica, i termini da non usare (e perché)

Valeria Barbi, politologa e naturalista, è l’ambasciatrice del Patto europeo per il clima in Italia e si occupa di fare formazione e divulgazione nell’ambito dei cambiamenti climatici e della biodiversità. “Oggi nei media si parla molto di più di crisi climatica, e se ne parla meglio. Quello che manca a volte è la volontà di ascoltare davvero la scienza, invece che il personaggio famoso di turno”

Come comunicare la crisi climatica, i termini da non usare (e perché)

“Oggi nei media si parla molto di più di crisi climatica, e se ne parla meglio. Quello che manca a volte è la volontà di ascoltare davvero la scienza, invece che il personaggio famoso di turno che parla di ambiente. C’è ancora poca attenzione ai termini utilizzati, e molta sensazionalizzazione”. A parlare è Valeria Barbi, politologa e naturalista, intervenuta sabato 2 ottobre alla “Scuola di ecologia politica in montagna” sull’Appennino Bolognese. Barbi è l’ambasciatrice del Patto europeo per il clima in Italia e si occupa di fare formazione e divulgazione nell’ambito dei cambiamenti climatici e della biodiversità.

“Il cambiamento climatico è qui e ora, ormai ce l’abbiamo fuori dalla porta di casa, e gli eventi metereologici estremi sono sempre più frequenti e più vicini – continua –. Sui giornali e sui social a volte leggiamo titoli attira-click, che contengono termini inesatti come ‘bomba d’acqua’: il problema è che poi dentro l’articolo non si spiega cosa significa questo, cosa è successo e quali sono le cause, e questo fa sì che il problema venga accantonato molto velocemente”. Un altro esempio, dice Barbi, è la famosa frase “il clima è impazzito”: “Il clima non è impazzito, il clima ha subito una modifica da parte dell’uomo – spiega –. Imputare sempre all’esterno la causa del problema, senza prendersi responsabilità, non ci porta da nessuna parte. Senza considerare che il fenomeno del negazionismo ancora esiste ed è diffuso”.

Eppure i dati ci sono, e sono inequivocabili: il 75 per cento della superficie terrestre è già stata modificata dall’uomo, così come il 40 per cento dei mari e il 50 per cento delle fonti d’acqua interne, che comprendono laghi e fiumi. Su 8,7 milioni di specie catalogate sul nostro pianeta, un milione è a rischio di estinzione, e si stima che si stiano estinguendo circa 200 specie ogni giorno.

“I cambiamenti climatici al momento sono il più grande ostacolo per uno degli obiettivi dell’Agenda 2030, ossia quello di eliminare dal mondo la fame e la povertà – afferma Barbi –. Si prevede che i cambiamenti potrebbero causare circa 100 milioni di poveri in più, per via dell’aumento della siccità e di una maggiore frequenza e intensità di fenomeni estremi, che comportano una crisi del settore agricolo, con particolare impatto sui piccoli agricoltori, impennate del prezzo del cibo, e naturalmente nuove migrazioni dovute al clima. Nel 2030, il 56 per cento della popolazione mondiale sarà in difficoltà per l’aumento del prezzo del cibo: nel 2080, la percentuale crescerà fino al 73 per cento. E l’impatto sui paesi in via di sviluppo sarà ancora più devastante”. Per questo, nel documento finale del convegno di Milano, anche i delegati della piattaforma “The Last 20” hanno chiesto di inserire lo status di rifugiato climatico all'interno della Convenzione sui rifugiati del 1951 e nel Protocollo del 1957.

E poi c’è la crisi idrica, una delle conseguenze più devastanti della crisi climatica. “Solo il 2,5 per cento dell’acqua sulla terra è acqua dolce, e la maggior parte si trova nelle calotte polari – spiega Barbi –. Con l’aumento della siccità, diminuirà anche l’acqua a cui l’uomo avrà accesso: il rischio è un aumento dei conflitti legati all’acqua. Già oggi, in alcune contese internazionali l’acqua viene usata come mezzo di pressione geopolitica”.

Si tratta di una questione di giustizia sociale e internazionale: la metà più povera della popolazione mondiale ha un contributo di emissioni pari al 10 per cento del totale, mentre il 10 per cento più ricco è responsabile del 50 per cento delle emissioni. Eppure, sono i paesi in via di sviluppo quelli più colpiti dalla crisi climatica, anche se ormai le modificazioni del clima di percepiscono ovunque: secondo un report del Cmcc, il Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, gli impatti ambientali in Italia potranno costare l’8 per cento del Pil, aumentando così il divario tra ricchi e poveri. “Per fortuna le nuove generazioni sono molto interessate al tema, e hanno delle proposte molto innovative, che vanno ascoltate – conclude Barbi –. Bisogna agire su due lati: nel privato le persone devono rivoluzionare le loro abitudini, mentre nella sfera pubblica le istituzioni devono dare risposte coerenti. Agire dal basso è importante, ma servono governi pronti a recepire il cambiamento in atto, se vogliamo davvero salvare il nostro pianeta”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)