Cos’è la gig economy e perché se ne parla tanto?

Per Michele Faioli, docente di diritto del lavoro all’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, nella regolamentazione del settore "riferimento dovrebbero essere i criteri ordinatori contenuti nei principi costituzionali relativi alla materia del lavoro" per "garantire un compenso salariale minimo, il principio della tutela della salute per sancire gli standard fondamentali di sicurezza sul lavoro, il principio di pari dignità e non discriminazione per proteggere i lavoratori da pratiche discriminatorie e lesive della dignità e della privacy, i principi di libertà e di organizzazione sindacale, la previdenza pubblica e privata". La vertenza sul caso riders e Foodora

Cos’è la gig economy e perché se ne parla tanto?

“Il legislatore non può ricomprendere in un’unica qualificazione giuridica le tante e plurali forme di lavoro mediante piattaforma. Si deve osservare il fenomeno con attenzione, poi decidere cosa fare o, meglio, rispettando il sistema di relazioni industriali italiano, far fare alle parti sociali, le quali sono generalmente più pronte a risolvere i problemi che il mercato del lavoro pone”. Michele Faioli, docente di diritto del lavoro all’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, è esperto di gig economy, l’economia dei “lavoretti” saltuari e su chiamata con i quali si integra il proprio reddito o ci si guadagna da vivere.

Alcune ricerche stimano che in Italia il numero dei gig workers sia in aumento e oscilli intorno al milione.
Non mi pare che i numeri che stanno circolando in questi giorni coincidano effettivamente con ciò che nella realtà si sta sviluppando. Recenti indagini – Eurofound per l’Europa, Cornell University per gli Stati Uniti, 

 per Europa e Stati Uniti – ci stanno indicando che si tratta di un fenomeno che è ancora marginale nelle nostre economie. Si dovrà attendere l’indagine che l’Inps sta svolgendo sulle circa 30 piattaforme di gig-economy che operano nel mercato italiano. A quel punto si potrà ragionare di numeri veri e probabilmente scopriremo che essi sono relativamente bassi.

Quando si parla di gig economy, ci si riferisce a un fenomeno unitario?
Assolutamente no. Diverse sono le tipologie di piattaforme digitali e diversi sono i contenuti e le forme dei servizi offerti tramite le stesse. Vi sono piattaforme che consentono uno scambio commerciale di un bene o di un servizio mediante internet o app per i cellulari. In tali ipotesi non vi è alcuna attività lavorativa (BlaBlaCar per il car pooling, Airbnb per la locazione di alloggi a breve termine). In altri casi la piattaforma digitale viene utilizzata per ottenere l’esecuzione di prestazioni che possono considerarsi, a tutti gli effetti, lavorative.

Non è, quindi, possibile identificare una nozione giuridica unitaria.

In alcuni casi, la piattaforma si limita ad ospitare/facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di servizi. Si pensi al match-making tra consumatore e Pmi/lavoratori autonomi operato dalle piattaforme digitali (Vicker, TaskRabbit, etc.) per l’erogazione di servizi alla persona o alla famiglia. In questi casi la piattaforma mette in contatto lavoratori indipendenti con il cliente, che procederà a remunerare il prodotto o il servizio reso. Nel caso del crowd-working (Amazon Mechanical Turk) il lavoro viene offerto e contestualmente svolto mediante la medesima piattaforma digitale.

C’è poi la questione aperta dei riders?
Una terza tipologia è quella del lavoro del conducente di automobile non riferibile a servizi autorizzati dalla legge (Uber, Lyft). Esistono infine, piattaforme che che organizzano consegne e distribuzione di beni mediante lavoratori cosiddetti riders (Foodora, Deliveroo, etc.). La qualificazione giuridica di tali ultime prestazioni è oggetto a livello internazionale di un vivace dibattito. Anche nella dottrina italiana si contrappongono differenti visioni del fenomeno che spaziano dal lavoro subordinato a quello autonomo, passando per soluzioni intermedie ed anche innovative.

I lavori saltuari a chiamata servono spesso per integrare il proprio reddito, ma per 150mila persone è l’unico lavoro. Si tratta di una forma di precariato di cui preoccuparsi?
Non credo, almeno per il momento. La gig economy può essere considerata anche come un fenomeno di facilitazione di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Una possibile alternativa è quella di assimilare, mediante una norma europea, al lavoro somministrato alcuni tipi di lavoro prestato mediante piattaforma digitale. In questo modo, la piattaforma opererebbe come un’agenzia di somministrazione e il ristorante/pubblico esercizio quale utilizzatore del lavoratore rider, con la conseguenza che al lavoratore rider si applicherebbero le tutele del lavoro somministrato. Si potrebbe, altresì, ipotizzare per casi di lavoro, sotto una certa soglia di reddito annuo, di far uso della piattaforma Inps per la gestione delle prestazioni di lavoro occasionale (voucher).

Le piattaforme digitali favoriscono la diffusione di mercati dinamici in cui le posizioni lavorative sono temporanee?
Non necessariamente. Il fenomeno deve essere osservato e monitorato con attenzione prima di arrivare a conclusioni di questo tipo. Ritengo corretto l’approccio del prof. Tiziano Treu secondo cui andrebbe messa fra parentesi la questione della qualificazione, ponendo in primo piano gli strumenti per la tutela dei diritti. In questo modo si potrebbe superare la pretesa totalizzante e unitaria tipica della fattispecie giuridica, come pare aver deciso il legislatore nazionale recentemente.

Riferimento in tal senso dovrebbero essere i criteri ordinatori contenuti nei principi costituzionali relativi alla materia del lavoro, sanciti anche dalle fonti internazionali e nello specifico l’art. 36 in tema di retribuzione per garantire un compenso salariale minimo, il principio della tutela della salute per sancire gli standard fondamentali di sicurezza sul lavoro, il principio di pari dignità e non discriminazione per proteggere i lavoratori da pratiche discriminatorie e lesive della dignità e della privacy, i principi di libertà e di organizzazione sindacale, la previdenza pubblica e privata.

Il profilo dei gig workers è di giovani uomini, principalmente del Nord e del Centro, che hanno un titolo di studio universitario. È un sintomo della crisi economica o soltanto una nuova possibilità di lavoro?
Siamo di fronte a un fenomeno tecnologico nuovo che può facilitare il match-making tra domanda e offerta di lavoro. Ci sono elementi di rischio sociale che vanno valutati e rispetto ai quali servono rimedi specifici. I lavoratori della gig economy dovrebbero vedersi riconosciuti i diritti sulla base della loro esposizione ai rischi sociali, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto.

C’è una difficoltà nella definizione normativa di questi lavori. Recentemente il Tribunale di Torino ha stabilito che i fattorini di Foodora devono essere considerati lavoratori autonomi. Eppure la questione non è di facile definizione, tanto è vero che la Commissione europea ha invitato i Paesi dell’Unione a formulare nuove normative per garantire una maggiore sicurezza ai lavoratori della gig economy.
Il giudice torinese è stato disattento perché ha utilizzato argomentazioni che possono essere ricondotte alla giurisprudenza che si sviluppò sui lavoratori pony express (tra cui Cass. 25 gennaio 1993, n. 811). Il giudice di Torino, muovendo dal metodo tipologico, si avvicina, per approssimazione, a realtà molto diverse da quella dei lavoratori riders. È una giurisprudenza che, osservando gli indici tipici di subordinazione, non coglie che gli elementi del caso specifico dei riders di Foodora rendono, per alcuni versi, la prestazione “più” subordinata di altre.

Ad esempio, si può ritenere che la radiolina utilizzata dal pony express negli anni ’80 sia in qualche modo assimilabile agli strumenti digitali/mobile che gestiscono, coordinano, sanzionano il lavoratore rider di Foodora? Non è forse potere di controllo e direzione quello esercitato dal datore di lavoro “algoritmico” (la piattaforma digitale) nei casi del delivery della gig economy? È, in definitiva, una sentenza che si allontana da quel metodo che la C. Cost. 12 febbraio 1996, n. 30 ci ha insegnato per distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo: sappiamo che per la subordinazione deve esserci il concorso di due elementi, i quali sono l’alienità del risultato, nel senso di destinazione esclusiva a altri del risultato per il conseguimento del quale la prestazione di lavoro viene utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce. Nel caso di Foodora (e in generale nei casi di delivery) tali elementi sono entrambi presenti.

Il ministro del Lavoro e Sviluppo economico, Luigi Di Maio, vorrebbe andare verso “un contratto di lavoro nazionale”. È un’ipotesi realizzabile?
La contrattazione collettiva è più veloce di quanto si possa immaginare. Il Ccnl logistica ha già inserito, mediante l’ultimo rinnovo del 2017, la figura professionale del rider (ciclo-trasportatore), anticipando di quasi un anno la richiesta del ministro Di Maio. Inoltre, mi pare di aver capito che le organizzazioni sindacali più rappresentative e le associazioni datoriali si stanno muovendo per definire a livello nazionale un sistema di protezione più adatto ai lavoratori riders, facendo leva sull’art. 2, co. 2, del d.lgs. 81/2015 (Job Act), il quale permette alle parti sociali di articolare/estendere una serie di protezioni a lavoratori autonomi che hanno determinate caratteristiche. Nel passato ciò è già avvenuto per i lavoratori dei call center e delle Ong.

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Fonte: Sir