Dopo il sequestro, padre Maccalli si racconta: “Anche in catene ero missionario”

"La forza mi è venuta dall’alto, ne sono convinto. Ho pianto, pregato e invocato Maria e lo Spirito Santo. Sono stati 2 anni di grande silenzio, tristezza e isolamento da 41 bis (nessuna comunicazione con l’esterno)". Così descrive al Sir il periodo di prigionia il missionario della Società delle Missioni Africane, liberato dopo più di due anni, lo scorso 8 ottobre, in Mali. Era stato rapito la notte del 17 settembre 2018 nella missione di Bomoanga, in Niger, da un gruppo armato

Dopo il sequestro, padre Maccalli si racconta: “Anche in catene ero missionario”

L’8 ottobre arriva la notizia tanto attesa da oltre due anni: “Padre Gigi Maccalli è stato liberato in Mali”. Il missionario appartenente alla Società delle Missioni Africane (Sma) era stato rapito la notte del 17 settembre 2018 nella missione di Bomoanga, in Niger, quasi al confine con il Burkina Faso, da un gruppo armato. Dopo il sequestro, al Sir padre Pier Luigi Maccalli, ora in quarantena nel suo paese natio, Madignano, racconta come ha vissuto questa grande prova.

Padre Gigi, in che ambito è maturato il suo rapimento? Nei due anni di rapimento è stato spostato di luogo molte volte?

In un primo tempo ho pensato ad una rapina a mano armata. Quando ho chiesto loro chi erano, il giorno dopo, hanno detto che potevo chiamarli jihadisti o terroristi.

Solo al 40° giorno quando ormai ero arrivato tra le dune del deserto del Sahara, mi hanno fatto un video dicendomi che ero stato rapito dal Gruppo di Sostegno all’Islam e musulmani (in sigla Gsim) una organizzazione fuoriuscita da Aqmi (Al Quaida au Maghreb Islamique).

All’inizio sovente mi cambiavano di posto, specie se sentivano dei rumori di droni. Comunque, ho attraversato il Sahara dai molti volti (sabbia, arbusti, pietre) da sud-est a ovest verso la Mauritania e poi da ovest a nord-est verso l’Algeria per finire gli ultimi 7 mesi tra le 3 frontiere Mali-Algeria-Niger in area Kidal. È una approssimazione che ci siamo fatti noi ostaggi italiani (Luca Tacchetto, Nicola Chiacchio ed io) condividendo le nostre conoscenze di quell’area geografica.

Come ha vissuto questa terribile prova?

La forza mi è venuta dall’alto, ne sono convinto. Ho pianto, pregato e invocato Maria e lo Spirito Santo. Sono stati 2 anni di grande silenzio, tristezza e isolamento da 41 bis (nessuna comunicazione con l’esterno). La mia più grande tristezza da missionario con 21 anni di presenza in Africa (10 in Costa d’Avorio e 11 in Niger) era vedere dei giovani (i miei carcerieri e sorveglianti) indottrinati da video di propaganda che inneggiavano alla Jihad e alla violenza.

Mi sono sentito missionario fallito che ha sempre predicato e creduto alla non-violenza come via della pace e dello sviluppo.

L’impegno per la formazione dei ragazzi e dei giovani che sono la forza viva e dinamica per un’Africa nuova o almeno diversa, per un’Africa non incatenata dalla corruzione e da tante ingiustizie… accusava un colpo, mi sono sentito sconfitto.

Ha avuto paura di morire?

Più i giorni passavano e meno temevo una conclusione drammatica anche se mi ero preparato a tutto. Tranne una volta. Ho ricevuto una minaccia verbale, da parte di un mujahidin, di piantarmi una pallottola in fronte alla prima occasione propizia. Eravamo al nono mese di detenzione. Quella parola o promessa mi ha reso più guardingo ed attento.

Mi son reso conto che ogni mia parola e gesto poteva essere letto come una provocazione.

Quanto la fede l’ha sostenuta? E come ha vissuto il suo sacerdozio?

È stata la mia forza e si è rafforzata nella prova.

Non potevo celebrare l’Eucarestia, né leggere la Parola di Dio, ero spogliato di tutto e a volte incatenato, ma non così la mia fede.

Ho attraversato la notte oscura e più volte ho gridato a Dio con Gesù sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”. È stato un passaggio pasquale, ma ora sono risorto e posso cantare con il salmo 125: “Quando il Signore le nostre catene strappò ed infranse fu come un sogno, tutte le bocche esplosero in grida, inni fiorirono in tutte le gole”.

Alcuni suoi compagni di prigionia si sono convertiti all’Islam. Hanno fatto molte pressioni su di lei? Il suo rifiuto l’ha messa a maggior rischio?

Circa i miei compagni di sventura posso dire che è stato per convenienza. Un modo di tutelarsi contro il peggio perché è convinzione di questi mujahidin zelanti e fanatici musulmani che chi uccide un musulmano indifeso va dritto all’inferno. Con me ci hanno pure provato.

Quando era pesantemente insistente trovavo l’escamotage dicendo loro che sarà quando Dio vorrà, visto che tutto è scritto e a Dio non si comanda.

Fino all’ultima sera prima della liberazione un capo mi ha detto in francese: “Noi dobbiamo dirtelo ed avvertirti per il tuo bene per evitarti d’andare all’inferno. Allah chiederà conto di te anche a me: ma come, avete rapito un non-credente e non gli avete detto di convertirsi all’Islam?”. Li ho ringraziati per la loro sollecitudine e benevolenza verso di me, ma ho detto che resto discepolo di Gesù figlio di Maria e accetto il giudizio di Dio qualunque esso sia.

Ha mai perso la speranza di tornare a casa?

Ogni sera dicevo al tramonto: anche oggi è passato, speriamo domani!

Quando ha capito che l’incubo stava per finire cos’ha provato?

Ho accolto l’annuncio con riserva perché già altre volte, ci avevano detto che entro poco sarebbe finita. Il 5 febbraio 2020 ci avevano dato anche una scadenza prossima: “Entro una settimana e forse anche meno sarete liberi”. Quel giorno abbiamo festeggiato e condiviso con i nostri guardiani biscotti e datteri, ma nulla è accaduto. A luglio e ad agosto ci hanno fatto 2 video e detto che probabilmente entro 10 o 20 giorni saremmo partiti, duplice flop! Temevo che anche stavolta qualcosa andasse storto, anche se sapevamo che c’era stata, domenica 4 ottobre, la liberazione, dalle prigioni di Bamako, di un centinaio di prigionieri jihaditi e Rfi stimava questo evento come moneta di scambio per la liberazione di ostaggi.

Speranza e cautela mi abitavano in quei giorni e affidavo tutto alla Madonna del Rosario (7 ottobre) che scioglie i nodi.

Com’è la situazione adesso nel Sahel?

Era una polveriera, ora ha preso fuoco!

Il livello di allerta si è alzato con il mio rapimento nella zona di confine Niger-Burkina Faso e quest’anno in Niger tutto il Paese è zona rossa a seguito dell’uccisione dei 6 giovani operatori umanitari di una Ong francese nell’agosto scorso. Dal Mali al Niger passando per il Burkina Faso c’è insicurezza e gruppi armati fanno scorribande.

Il superiore generale della Sma ha detto di essere restato colpito dal suo appello al perdono, alla fraternità, alla speranza che si possa arrivare a una comprensione con i jihadisti…

I giovani jihadisti con cui sono stato in contatto, i miei guardiani e sorveglianti, mi fanno solo tanta tristezza. Sono quasi tutti analfabeti e indottrinati al miraggio di un ideale falsato di vivere appieno l’Islam, combattere per Allah e imporre a tutti i musulmani la sharia.

Non porto rancore verso di loro per quanto mi hanno fatto subire, perché “non sanno quello che fanno”.

A colui che è stato il “responsabile” della nostra prigionia in questo ultimo anno e ci ha accompagnato personalmente fino al luogo della liberazione, ho augurato: “Che un giorno Dio ci faccia capire che siamo tutti fratelli”.

Quant’è importante la realtà missionaria in queste terre?

Missione è testimoniare la fraternità al quotidiano. Costruire ponti di fratellanza universale. Missione è combattere l’ignoranza e l’analfabetismo con le armi del dialogo e della non-violenza, con umiltà e pazienza.

Quello che l’uomo umanizza, Dio divinizza – diceva François Varillon -, questo è il mio credo missionario.

Lei pensa di tornare in missione?

La missione non è una questione di geografia, ma di cuore. Il mio fondatore amava dire: “Essere missionari dal profondo del cuore”. È ciò che ho sempre cercato di essere in Africa e in Italia negli anni di animazione missionaria che ho svolto per 10 anni. La missione è l’essere proprio della Chiesa. Tutti siamo discepoli-missionari, chiamati e mandati.

Anche in catene ero missionario anzi proprio le catene mi hanno aiutato a capire meglio la Missio Dei. Pensavo che mi avessero rubato due anni di vita e di missione, mi rendo conto che sono stati invece due anni di fecondo ministero in Africa e in Italia che non avrei mai immaginato.

Un posto speciale, certo, ha nel mio cuore Bomoanga (Niger), la missione da dove sono stato strappato bruscamente. Adesso sono in contatto con loro via telefono, posso finalmente raggiungerli almeno con la voce. Hanno danzato di gioia nella chiesa di Bomoanga per la mia liberazione. So che stanno soffrendo per gli attacchi di gruppi armati che vogliono seminare terrore nella zona. Da due anni nessun prete ha più celebrato l’Eucaristia in loco.

Padre Mauro (confratello in missione a Niamey-Niger) ha detto loro che “per ora non è possibile, forse l’anno prossimo mi rivedranno”. Insh’Allah è la mia aggiunta.

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Fonte: Sir