Forti della sua forza, lasciando che il Signore entri nel nostro tempo

Lasciando che il Signore entri nel nostro tempo, tutto si innerverà del suo amore divino e ciò che siamo diventerà pieno di senso

Forti della sua forza, lasciando che il Signore entri nel nostro tempo

Adesso accendo l’abat-jour, mi siedo, apro il secondo volume della Liturgia horarum e – Dio non voglia – magari con un sottofondino musicale recito il Vespro... Quest’idea borghese del buen retiro spirituale quotidiano è il contrario della verità della relazione tra l’eterno e il tempo. La preghiera liturgica è infatti il sovvertimento della nostra comodità. San Paolo scrive ai Corinzi: «D’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero». E la premessa era: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve». L’aggettivo che l’apostolo usa, «breve», nell’originale greco è riferito all’atto con cui il marinaio, giunto al porto, tira giù le vele e le piega in fretta, perché la giornata è finita e se di notte si alza il vento, spacca tutto. È dentro questa idea di tempo piegato, raccolto, che il cristiano celebra la Liturgia horarum. Non si siede, comodo, a meditare. La sequela di Cristo, nel Vangelo, non ha colori scialbi. L’irruzione del Verbo di Dio nell’avventura dell’uomo ha accorciato il tempo, perché carne e Logos si toccano, carne e Logos si fondono (senza confusione – precisa Calcedonia), carne e Logos sono tangenti, storia ed eterno, divino e umano si baciano. Il Signore è vicino: lo si proclama nella prima domenica di Avvento, ma perché non abbiamo a dimenticare mai che il tempo è breve, che è corta, piegata l’esistenza. Il Salvatore irrompe e disturba il nostro tempo. Quando, nei monasteri, suona la campana per entrare in coro, il monaco cuoco mette giù il cucchiaio della minestra, l’agricoltore la pala, l’apicoltore il casco e i guanti. Il Figlio di Dio sussurra alle nostre orecchie, ha bussato alla porta. «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». «Lasciato tutto, lo seguirono». Nei meravigliosi affreschi del Battistero della Cattedrale, quando Matteo si stacca dal banco delle imposte ci sono i bambini accucciati per raccogliere le monetine cadute, perché l’ex gabelliere ha dato una spinta al telonio per andare dietro a Gesù. Il Vespro bussa. Le Lodi mattutine reclamano. Dicono: «Dove sei?». Le parole del Breviario escono dalla lingua del Verbo come fuoco. Bruciano, scuotono. Così l’anno liturgico: non è una collezione di conti alla rovescia, di diapositive, o il giochino della casula bianca, viola, rossa, verde. Il Signore è venuto ad abitare il nostro tempo. Altrimenti perché, sulle rive del Giordano, avrebbe detto: «Il tempo è compiuto. Il regno dei cieli è vicino»? Da quando si è sentito lo scricchiolio di quella ruota di pietra che ha lasciato libero l’accesso al sepolcro, dal momento in cui la cassa toracica di Gesù di Nazareth si è gonfiata nuovamente e dalla sua bocca è uscito il flatus, il soffio vitale della nostra carne, di che cosa hanno ancora bisogno il mondo, la storia, la Chiesa, gli uomini, gli animali, le piante, gli oceani, le galassie? Dietro il velo già abita il Vivente ed è questa la sorgente fresca e impetuosa che ci dà l’anno del Signore. La Liturgia delle ore ci spinge a guardare dietro la figura del presente e a credere alla definitività di Dio – cioè alla sua fedeltà, direbbe la Scrittura. Questo è il senso del celebrare il tempo. Dentro l’acqua del Giordano Gesù sta nello stesso modo in cui la croce sta conficcata sul Calvario. Non vacilla. Non si muove. Non vibra. Non freme. Sta. La sua fedeltà mi riempie ogni volta che dico «o Dio, vieni a salvarmi» e il mio corpo lo segno tutto, dall’alto al basso, lo taglio, lo trafiggo con il segno della croce. «Signore, corri presto in mio aiuto». «Festina»: affrettati. Ci sono alcune immagini medievali stupende di Gesù architetto del mondo. Ha tra le dita un compasso, con cui gioca con l’universo e lo governa. Siede sulle nubi del cielo, tiene in mano il circulus anni, dentro lo zodiaco. Danza in mezzo al cosmo, perché lo possiede, lo ha compiuto. Lasciando che sia lui a sbaragliare il nostro tempo, a entrarvi dominandolo e mostrandolo compiuto, tutto si innerverà del suo amore divino e ciò che siamo, opere e giorni, diventerà pieno di senso. Ma questo possiamo percepirlo solo riappropriandoci di ciò che, paradossalmente, non ci appartiene. Sentendo nella liturgia del tempo violenza divina, la forza del Primo e dell’Ultimo, dell’Antico dei giorni, dell’Alfa e dell’Omega, del Re dell’universo. E diventando forti della sua forza.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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