Il dopo pandemia nel rapporto tra Stato e Regioni. Cerniglia (Cranec): “Non occorre introdurre nuove disposizioni costituzionali”
Il discorso sulla ripartenza economica del Sistema-Italia dopo la pandemia – quando per la verità il contagio del Covid-19 è tutt'altro che sconfitto – si mostra in questi giorni fortemente intrecciato con le questioni relative al rapporto tra lo Stato e le Regioni e tra le diverse aree del Paese. Di questo intreccio e dei problemi che pone, anche in termini di conflitti redistributivi, abbiamo parlato con Floriana Cerniglia, ordinario di economia politica all'Università Cattolica di Milano e direttore del Cranec (Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale), una studiosa sempre molto attenta al tema dei territori e delle autonomie
Il discorso sulla ripartenza economica del Sistema-Italia dopo la pandemia – quando per la verità il contagio del Covid-19 è tutt’altro che sconfitto – si mostra in questi giorni fortemente intrecciato con le questioni relative al rapporto tra lo Stato e le Regioni e tra le diverse aree del Paese. Di questo intreccio e dei problemi che pone, anche in termini di conflitti redistributivi, abbiamo parlato con Floriana Cerniglia, ordinario di economia politica all’Università Cattolica di Milano e direttore del Cranec (Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale), una studiosa sempre molto attenta al tema dei territori e delle autonomie.
Soltanto pochi mesi fa si stava discutendo dell’autonomia rafforzata chiesta da alcune Regioni e ora l’emergenza sanitaria ha messo in evidenza il problema inverso, con un proliferare scoordinato di iniziative regionali, spesso dissonanti rispetto alla strategia nazionale, tanto da introdurre nel dibattito giuridico il tema di una clausola di supremazia dello Stato da inserire nella Costituzione. Quando l’emergenza sarà finita, da che punto potrà ripartite il discorso sull’autonomia rafforzata? Tra l’altro le tre Regioni che si erano spinte più avanti, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono proprio le più colpite dal virus.
Ci sono varie questioni che non sono chiare. Perché una maggiore virulenza in Lombardia? Quali errori sono stati fatti in Lombardia (se ci sono stati) che non sono stati commessi in altre Regioni? Il maggior numero di morti in questa Regione è dipeso dal modello sanitario diverso da quello delle altre due Regioni? Io credo che occorra avere innanzitutto risposte a queste domande, per poi ri-affrontare in modo sereno il tema della suddivisione di materie e funzioni tra Stato e Regioni. Ad ogni modo concordo con molti giuristi: non occorre introdurre nuove disposizioni costituzionali, cioè la clausola di supremazia. Basta già l’art. 120 della Costituzione sul potere sostitutivo dello Stato. E non solo, anche la chiamata in sussidiarietà dell’art. 118 della Costituzione. Si potrebbe anche pensare di rivedere alcune norme contenute nella legge n. 833 del 1978 (istitutiva del Servizio sanitario nazionale) per definire meglio gli ambiti reciproci delle competenze dello Stato e delle Regioni in situazioni di emergenza. Mi faccia però dire anche un’altra cosa:
una delle questioni su cui si era più discusso nelle bozze di intesa tra le Regioni e il Governo era stata quella relativa alle modalità di finanziamento delle nuove funzioni. Le tre Regioni volevano un’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi erariali nazionali.
E lo chiedevano al fine di assicurarsi un maggiore gettito per i propri territori dato che in quelle Regioni la dinamica del gettito dei tributi erariali nazionali – Irpef e Iva per intenderci – è sempre stata superiore alla dinamica della spesa pubblica. Adesso lo scenario si sarebbe capovolto! Il gettito in quelle Regioni (che fondano la propria ricchezza in prevalenza sul settore privato) crolla di più di altri territori. Come si sarebbe dovuto perequare, da parte dello Stato, e/o adeguare l’aliquota di compartecipazione per far fronte ad una spesa pubblica che certamente occorre aumentare intanto che le entrate calano?
Adesso si pone con forza il problema della ripartenza produttiva e anche in questo caso dalle Regioni arrivano impulsi contraddittori e autoreferenziali. Non dovrebbe essere invece un grande impegno del Paese nel suo insieme? Dal punto di vista economico c’è chi ritiene che sia meglio articolare la ripresa a livello territoriale e chi invece ritiene più utile scaglionarla per settori produttivi. A suo avviso quale via è da privilegiare?
Gli impulsi contraddittori e autoreferenziali ci sono, purtroppo, perché temo che in Italia in questi anni i governi regionali e comunali siano diventati anche vetrine e luoghi privilegiati per battaglie politiche tra governi (locali e nazionali) spesso di colore politico diverso. Non è solo una questione di quali siano oggi le materie e le funzioni della Regione, ma soprattutto di quale sia la sua capacità di relazionarsi con gli altri livelli di governo.
Una Regione è utile se anzitutto sa gestire le funzioni in modo collaborativo con lo Stato (e viceversa ovviamente). Su come articolare la ripresa, una strada non esclude l’altra. Ed è ovvio che dobbiamo affidarci alla curva dei contagi per capire che direzione prendere.
In realtà la risposta potrebbe avere anche altre articolazioni, ad esempio ci sarà pure una differenza tra riorganizzare la ripartenza nelle grandi città rispetto ai piccoli centri dove gli spostamenti, anche sui luoghi di lavoro, non necessitano di metropolitane, treni, etc. Credo che anche questo sarà un altro punto da considerare. Ci sarebbe inoltre da capire meglio come si sta riorganizzando la ripartenza in altri Stati, ad esempio in Germania e in Francia, dove c’è anche un cronoprogramma già stabilito nei vari settori.
L’emergenza sanitaria ha evidentemente colpito molto di più il Centro-Nord, ma secondo un’analisi della Svimez il Sud rischia di accusare una maggiore debolezza nella fase della ripresa economica perché sconta le conseguenze della precedente crisi da cui è mai riuscito a uscire del tutto. Condivide quest’analisi?
Sì, assolutamente. La Svimez mette soprattutto in guardia sul fatto che il depauperamento della capacità produttiva che si determina dopo ogni crisi economica questa volta potrebbe essere ancora più esiziale nell’acuire il divario Nord-Sud. Problema mai risolto dall’Unità a oggi e che si è aggravato dopo la crisi iniziata nel 2009. E per questo ci sono anche altre questioni dalle quali non bisogna distogliere l’attenzione. Ad esempio nei giorni scorsi, scorrendo le bozze di documento “L’Italia e la risposta al Covid-19” del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ndr) avevamo letto che, al fine di fare una nuova valutazione su dove concentrare gli investimenti in considerazione del mutato scenario sociale e produttivo, si poteva derogare alla previsione di destinare al Sud una quota di investimenti pubblici almeno pari alla sua popolazione, cioè il 34%. Tale quota era stata introdotta solo di recente: per legge nel 2016.
Negli scorsi anni la quota di investimenti al Sud è stata sempre inferiore a tale quota, come ha sempre ben denunciato e documentato la Svimez.
Ora pare che il ministro Provenzano si sia opposto fermamente, definendola “proposta inaccettabile”. Ad ogni modo, si capisce già che anche questa crisi, come quella precedente, metterà in atto conflitti redistributivi tra i territori che si dovranno “accaparrare” le poche risorse disponibili, attingendo ad una coperta sempre più piccola. Detto altrimenti questa volta, visti gli scenari di calo del Pil e di conseguente calo delle entrate, tali conflitti redistributivi potrebbero essere ancora più acuti rispetto alla precedente crisi del 2009. Conflitti che in parte stavano anche alla base della richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune regioni. In fondo tutto era partito dalla richiesta del Veneto di riduzione del cosiddetto “residuo fiscale”. Le ultime polemiche di questi giorni tra De Luca e alcuni amministratori del Nord non ci fanno ben sperare.