Intrappolati nella camera dell'eco

Dal nobile tentativo di creare dinamiche conversazionali alla nascita delle "camere dell'eco" dove sempre più utenti del web vogliono leggere e sentire solo quello che è in linea con le proprie idee. Sono le storture della comunicazione social, nelle quali anche la politica deve sapersi destreggiare. Con il rischio di ritrovarsi invischiati nelle fake news. 

Intrappolati nella camera dell'eco

L’idea alla base di “Punti di vista”, la finestra pre-elettorale creata da Facebook qualche settimana prima del voto del 4 marzo, è stato un tentativo da parte dell’azienda di Mark Zuckerberg di offrire agli utenti italiani un punto di confronto non banale, che provasse ad allargare l’orizzonte ascoltando le idee politiche dei diversi partiti.
Un invito che, paradossalmente, parte dal social network che più di altri ha contribuito ad affossare la pluralità e a produrre quella che alcuni massmediologi definiscono “l’omofilia delle reti”.

In buona sostanza, un utente è attratto da post, articoli, contatti che confermano le proprie opinioni, rispedendo al mittente, con diffidenza, tutte quelle differenti dalle proprie.

La comunicazione politica che passa dal web si deve necessariamente rapportare (scontrarsi, ma anche “approfittare”) con questa fisiologia distorta, nella quale l’autoreferenzialità è elevata.
E poco importa se è vero quello in cui troviamo conforto e che vogliamo sentirci dire. Scricchiola, così, l’ambizione più nobile e virtuosa dell’essere in rete, ossia instaurare dinamiche e relazioni all’interno di un dibattito proficuo tra gli utenti, favorito anche dall’assenza di mediazioni imposte dall'alto.

Al contrario assistiamo allo svilupparsi della cosiddetta “camera dell’eco”, uno spazio chiuso e metaforico in cui le informazioni vengono amplificate o rafforzate dalla ripetizione.
Le idee diventano così credenze, nulla viene messo più in discussione e gli algoritmi dei social tendono a farci vedere preferibilmente (o esclusivamente) utenti con le nostre simili opinioni, accentuando e aggravando una visione univoca e acritica.

Una polarizzazione in cui fatalmente finiscono per proliferare “bufale” e fake news che, in campagna elettorale e non solo, hanno finito per mescolarsi e inocularsi nel flusso dell’informazione.
Così si legge di falsificazioni e complotti, per esempio, sul salvataggio di Josepha, la donna camerunese soccorsa nelle acque a largo della Libia dall’imbarcazione Open Arms, e delle sue unghie perfettamente smaltate. Sciacalli mediatici che infiammano la rabbia e il disappunto con strategie studiate per produrre un effetto di risonanza e capillare diffusione. 
Con il rischio, altissimo, anche per il più attento utente normale o politico o giornalista, di ritrovarsi invischiato: il 10 agosto, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha condiviso un articolo del Giornale sulla richiesta di poter vedere Sky fatta da alcuni richiedenti asilo ospitati a Vicenza. Una notizia falsa che, però, è rimasta per diverse ore visibile sulle piattaforme del leader della Lega.

È un problema per chi fa comunicazione
È un problema che di base riguarda la certezza e l’attendibilità delle fonti. I social hanno dato velocità al dibattito nel tempo della post-verità, in cui è più complesso distinguere menzogna e sincerità, in cui scienza e supposizioni si confondono. E in cui l’esclamazione «È vero perché l’ho letto su internet» non ha la stessa legittimità di quando si diceva «L’ho sentito in tv».

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