Io che odio fotografare il cibo, mi ritrovo un pancake come ultimo ricordo della spensieratezza

Chi avrebbe mai pensato che un succulento pancake potesse essere l’ultimo cibo gustato all’aperto, fuori, insomma non isolato a casa e in "quarantena"? Ma dietro a questa foto c'è anche una storia di due amici, quotidianamente distanti oltre 700 chilometri, che fugacemente si sono abbracciati e rivisti per un paio di giorni. Proprio i giorni dopo l'ufficialità del Coronavirus in Veneto 

Io che odio fotografare il cibo, mi ritrovo un pancake come ultimo ricordo della spensieratezza

Non ho l’ossessione di scattare foto degli antipasti, dei primi, dei secondi, del dolce o di tutto ciò che di commestibile mi viene servito a tavola o preparo in cucina. Fotografo un po’ di cose sparse, ma non il cibo, anzi provo un certo imbarazzo se mi ritrovo gomito a gomito con qualcuno che mi fa aspettare quei due tre secondi in attesa dello scatto perfetto.

La foto in copertina però è un’eccezione. Un’eccezione sentimentale. Non è partita dal mio smartphone, ci tengo a sottolineare, ma è preziosa perché immortala l’incontro, dopo diversi mesi, tra me e un mio carissimo amico, Massimo, che vive a Bari. Nonostante gli oltre 700 chilometri di distanza, anche se il turbinio delle vite ci porta ad avere la testa e i giorni costantemente impegnati, lui ci prova sempre a organizzarsi per passare dei giorni a Padova. A questo giro, i giorni erano tre. Chi avrebbe mai pensato, però, che un succulento pancake potesse essere l’ultimo cibo gustato all’aperto, fuori, insomma non isolato a casa e in "quarantena"?

Da settimane avevo pianificato quei tre giorni: l’avrei recuperato sabato mattina dall’aeroporto “Canova” di Treviso, saremmo andati a pranzare in un localino che conosco bene sempre nella città trevigiana, poi nel pomeriggio escursione e passeggiata nella zona del museo di Cava Bomba sui Colli Euganei. Domenica sveglia presto per andare a Venezia in pieno delirio frizzante di carnevale, pomeriggio a Conegliano per vedere la squadra femminile di volley, l’Imoco. Lunedì giretto per Padova senza troppe pretese prima di accompagnarlo nuovamente all’aeroporto.

Vi ho detto i giorni, ma non vi ho detto esattamente di quale settimana e di quale mese stiamo parlando. Ho provato a posticipare questo piccolissimo dettaglio fin dove è stato possibile: sabato 22, domenica 23 e lunedì 24 febbraio. Sì, esatto, qualche ora dopo la triste e deflagrante ufficialità scandita dal governatore Luca Zaia, sulla positività al Coronavirus di due cittadini di Vo’ Euganeo. Era il pomeriggio di venerdì 21 febbraio, una data certamente indelebile.

Mettetevi nei panni di chi si ritrova a consultare siti, sentire telegiornali con le prime frammentarie notizie, non avendo la benché minima idea della conformità del Veneto. Anzi, nelle prime ore molti siti d’informazione parlavano di "casi a Padova" nemmeno nel "padovano". Non a Venezia, a Rovigo o Vicenza, no, a Padova. Immaginate Massimo che sta per mettersi in viaggio e venire proprio nella zona rossa. Tutto è diventato surreale, ma umanamente comprensibile. Non si è fatto prendere dal panico e dall’agitazione, nonostante il monito di parenti e genitori. Legittimi, certo.

Per amicizia Massimo ha resistito 24 ore. I piani, i programmi sono saltati tutti: niente escursione, figurarsi il carnevale a Venezia. Annullata la partita di volley così come nel caos ci sono entrati a piè pari tutto lo sport e la vita. Solo notizie, telefonate, accertamenti, scrivere articoli, leggere, ancora telefonate e ancora accertamenti. Sconforto e preoccupazione. E reciproco incoraggiamento. Non ricordo nemmeno cosa abbiamo fatto sabato dopo essere rientrati da Treviso, so solo che domenica mattina Massimo si è svegliato presto: rimbalzavano notizie di un possibile lockdown del Veneto e, per rasserenarlo, abbiamo pensato che l’unica soluzione era prendere il primo treno possibile e scendere giù in Puglia per tornare a casa. Senza aspettare l'aereo del lunedì, è ripartito domenica poco prima delle 13.

Con lo scenario attuale in Italia, questo racconto può essere (e senz’altro lo è) esageratamente gonfiato e inappropriato. Però è stato l’incipit di uno stravolgimento quotidiano, dello scoramento per aver passato poche ore e con pochi sorrisi con una persona cara che vedo poco spesso. E di una foto a un pancake che guardo con sorriso e che mi fa crollare certezze. E che ho salvato sul pc col nome "pancake-coronavirus": a pensarci bene, un mese fa…

Ps: per questa rubrica "temporanea" ho scelto il nickname @giornalistasenzacappello. Chissà quando vi svelerò il perché. 

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