Itinerari. Tra terme e colli, fede e territorio sono tutt’uno da mille anni
Dopo le “vette” di un mese fa, scendiamo ai piedi degli Euganei, luogo prediletto dai monaci nel Medioevo che mantiene questa sua vocazione anche nel terzo millennio.
La storia “spuria” di San Daniele
Il turista qualunque, il visitatore curioso, pure il pellegrino motivato, che dalle Terme indirizzano il cammino verso gli Euganei, si imbattono quasi d’impatto in una storia spuria, non sempre lineare, un po’ imbastardita, direbbero i maligni. È la vicenda del monastero di San Daniele (una manciata di chilometri da Abano); cominciata negli ultimi decenni dell’undicesimo secolo, quando le prime testimonianze raccontano dell’esistenza di un «luogo sacro», ricavato dai signori da Montagnone su un loro maniero, per onorare la memoria del santo martire Daniele. Dopo che il monastero fu affidato ai Benedettini, nel Trecento, «a causa della mancanza di vocazioni», la comunità venne soppressa nel 1460. Ai monaci successero i Canonici regolari di San Salvatore di Venezia; tra la fine del Seicento e gli inizi del secolo seguente il cenobio rifiorì, grazie a una serie di riforme. Fu a quel punto che si verificò il primo strappo nella vicenda, fino ad allora ortodossa: San Daniele, sulla scia delle soppressioni veneziane, il 12 settembre 1771 venne messo all’asta e acquistato dall’avvocato Federico Todeschini di Venezia; il chiostro subì così un destino per molti aspetti un po’ degradante: divenne la dote della figlia Elisabetta, quando andò in sposa (1832) al conte Bartolomeo Bonomi. Naturalmente i nuovi proprietari non badarono molto alla caratterizzazione religiosa del posto, trasformandolo in comoda ed elegante dimora estiva. La storia talora è beffarda e si prende delle rivincite; così, con la seconda guerra mondiale, la famiglia Bonomi subì un mortificante tracollo finanziario: la villa castello venne addirittura persa al gioco d’azzardo. Le disavventure economiche dei nobili restituirono il luogo alla sua missione di fede, tornando all’iniziale funzione nel 1948, quando si insediarono le “fuggiasche” Benedettine di San Rocco di Fiume. Fin qui il racconto, tra sacro e profano. Solo passato? Non del tutto, perché pare che le consacrate, che tuttora abitano il vecchio conventus, siano molto attente a mantenere viva la memoria, non solo della loro primitiva vocazione alla preghiera e al lavoro, ma anche dei trascorsi borghesi del sito. L’impressione del casuale visitatore, senza nulla togliere alla vita e alla pratica delle religiose, è di un posto perfettamente in sintonia con il vissuto termale e turistico di questa parte del Veneto; un piccolo colle (87 metri), un’ampia scalinata, subito la chiesetta, ma soprattutto il museo, ospitato nella villa padronale. In uno degli storici locali, l’immancabile negozio, c’è pure il bar e la foresteria, che accoglie. Un piccolo centro servizi, utile alla vita, al sostentamento delle monache, piacevole per il turista.
Praglia, scrigno di storia e bellezza
Il viandante paziente o il turista frettoloso la vedono quasi all’improvviso, discosta dalla via principale, confinata ma non abbandonata, schiva non estranea. Sta su un’area prativa, una pratalea, da cui quasi certamente prende il nome, incastrata nei colli; vive qui da secoli, nel nome di Benedetto. L’abbazia di Santa Maria Assunta a Praglia è luogo totale: vecchia di storia, generosa di arte, docile e rispettosa in natura, colma di spirito; è aperta, perché ciascuno qui può quanto meno cercare; l’esito positivo di tale investigazione dipende da una condizione decisiva: immergersi in libertà, senza pregiudiziali, senza remore o artifizi. Chi rincorre la storia è atteso da un lungo cammino, che iniziò tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo. Allora, alcuni membri della famiglia dei Maltraversi fondarono (sul luogo prima occupato da un castello) un monastero, la cui presenza trovò codificazione formale soprattutto in un atto di papa Callisto II che mise le mani sul novello cenobio ponendolo sotto la sua diretta protezione. Un passaggio decisivo nel 1124, allorché il vescovo di Padova e lo stesso pontefice confermarono l’abbazia sotto la tutela, ma anche l’assoggettamento della consorella cluniacense di San Benedetto in Polirone nel Mantovano, che faceva riferimento all’abbazia francese di Cluny. Il modello, basato sull’equilibrio di tanti poteri, funzionò almeno fino agli inizi del quattordicesimo secolo, quando successe un fatto che ruppe la consolidata armonia: nel 1304 i monaci elessero autonomamente la loro guida. Fu l’inizio di un periodo molto complicato; i Carraresi, in quanto padroni di Padova, nel 1362 misero le mani su Praglia; non durò molto; quello che invece persistette fu lo stato precario del monastero, tant’è che dal 1391 fu retto direttamente da Roma, attraverso la modalità della commenda; questo non impedì che la comunità vivesse una stagione di triste decadenza, che si protrasse fino al 1448, quando entrò a far parte delle Congregazione riformata di Santa Giustina, la De Unitate. Tutto questo fino al 1810, quando le soppressioni napoleoniche si abbatterono impietosamente, non risparmiando neppure il prestigioso chiostro, rimasto desolatamente vuoto. Di lì a poco cambiarono i governanti e i religiosi, con l’avvento degli austriaci, fecero ritorno. Qualche anno dopo, l’ennesima espulsione, questa volta da parte del governo italiano (1867); la maggior parte dei consacrati trovò rifugio a Daila, in Istria. I Benedettini, però, non abbandonarono mai l’idea del ritorno; infatti, agli inizi del Novecento, accolsero la disponibilità di alcuni banchieri che avevano acquistato all’asta parte degli immobili e se ne riappropriarono. Il 26 aprile 1904, due monaci rientrarono a Praglia; soltanto il primo passo, al quale ne seguirono ininterrottamente tanti altri. Qui, oggi, oltre al devoto, arrivano soprattutto il viandante e il turista, magari annoiati dalle narrazioni, dalle vicende di potere, dalle guerre, dai trattati e dagli andamenti di cui è intessuto il racconto ufficiale della storia; quelli che preferiscono guardare, ammirare, stupirsi, costruire il loro percorso tra arte e memoria, affidandosi alle emozioni e al piacere. Da questo punto di vista Praglia è uno scrigno che occorre soltanto avere la pazienza di aprire, svuotare con curiosità e sapienza, perché dentro c’è il bello, quello nutrito più dallo spirito che dallo sfarzo, più dall’evocazione dell’anima che dal gusto estetico. La chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria Assunta, il grande chiostro Doppio, uno dei quattro dell’abbazia, sul quale si affacciano le celle; quello del Paradiso, il più piccolo e grazioso dei cortili, per eccellenza il luogo della convivenza e del governo dove si affacciano i locali più rappresentativi della vita condivisa: la chiesa, il refettorio monumentale, la biblioteca, la sala del capitolo, la clausura. Il chiostro Botanico è quello d’ingresso, così chiamato perché destinato alla coltivazione delle piante officinali per la farmacia; da sempre àmbito dell’accoglienza. In fine il cortile Rustico, indispensabile alle attività agricole. L’ambiente, la natura, la storia, l’arte, la quotidianità: tutto qui? Certamente molto: l’abbazia è offerta degna, alta, prelibata. Fermarsi a questo, però, è decisamente riduttivo, forse sufficiente al viandante e al turista, non abbastanza per il curioso totale, per chi vuole indagare, capire, raccontarsi un luogo che non è soltanto vicende (importanti) del passato, opere d’arte (preziose) ancora presenti e godibili, uomini che hanno scelto la radicalità di Dio nella preghiera, nel lavoro, nello studio. L’unico modo per cogliere il senso profondo di questo posto è immergersi nel suo vissuto: farsi monaci, metamorfosi per molti innaturale, forzata, artificiosa, ma di coinvolgente effetto, ben oltre la suggestione o l’emozione. Una pratica, magari solo temporanea (a Praglia è possibile essere ospiti), che prende dentro, totalizzante, al di là delle beatitudini dello sguardo sull’arte, della naturale dolcezza dei panorami, dei libri, delle affascinanti pratiche liturgiche. Indossare l’abito: esperienza dell’anima, quella di cui questi uomini di Dio sono interpreti competenti.
Il re e i frammenti di antiche comunità
Non è neppure facile trovarla, vederla; proprio per questo, re Vittorio Emanuele III vi prese dimora durante la prima guerra mondiale. Da allora si chiama Villa Italia, nome parzialmente evocativo, visto che la storia originaria prese avvio molto prima, addirittura nel 1150, quando papa Eugenio III confermò all’Ordine di Sant’Agostino il possesso del colle, famoso per la trachite, e di una chiesa intitolata a Santa Maria, a Lispida, tra Battaglia e Monselice. Il monastero ebbe vita lunga e travagliata, accogliendo per oltre sei secoli varie comunità. La storia s’interruppe con la chiusura del 1780; la proprietà venne acquistata dai conti Corinaldi, che trasformarono tutto in azienda agricola e residenza, anche per il re.
Chiostri termali
Senza entrare nel dibattito se anche il Duomo di San Lorenzo ad Abano abbia avuto un remoto vissuto benedettino, nessuna incertezza invece sul passato di un altro sito termale, il cui destino finale peraltro era già segnato: che cosa poteva diventare un chiostro senza più consacrati in un posto come Abano? Un luogo di cura; infatti, l’ex convento della Beata Vergine di Monteortone, dove dimoravano gli Agostiniani, oggi è un albergo, gestito dai Salesiani, che offre salute, grazie ai benefici del prodigioso fango termale. Certo, quando nacquero santuario e ricovero canonicale i motivi ispiratori erano un po’ diversi; tutto cominciò nel 1428, quando un milite, Pietro Falco, “vide” la Madonna e fu risanato “per miracolo” (?) dall’acqua di una fonte del luogo. Il soldato trovò tra i sassi una tavola dipinta raffigurante la Vergine con Gesù Bambino e ai lati san Cristoforo e sant’Antonio Abate; bastò questo per scatenare la devozione popolare, che portò dapprima alla costruzione di un piccolo oratorio, poi di una chiesa e di una dimora di Agostiniani, che più oltre divennero addirittura Congregazione, che nel tempo poté contare sull’aggregazione di quattro conventi, giunti a sei nel Seicento (a Padova, Rovigo, Venezia, Loreo), con una sessantina di religiosi. Liquidata la Congregazione (1794), nel 1810 il convento venne soppresso, espropriato; fu “bagni” per i militari austriaci e a lungo chiuso, in fine vero e proprio stabilimento termale (1874). La mission è mutata, ma benevolmente si può concludere che rimane nell’ambito della salvezza, magari non proprio dell’anima.
Toni Grossi
Giornalista