L come Lavoro. L'ambivalenza del lavoro, croce e delizia dell'umanità, vede la sua conferma quando lo associamo alla famiglia

Il lavoro accompagna passo passo la nostra ferialità, il nostro quotidiano scalare il mondo, dice chi siamo ma non ci rappresenta completamente.

L come Lavoro. L'ambivalenza del lavoro, croce e delizia dell'umanità, vede la sua conferma quando lo associamo alla famiglia

Il meglio del vivere sta in un lavoro che piace e in un amore felice. Umberto Saba.

L come lavoro. Non c’è parola come questa che possa suscitare contemporaneamente sentimenti tanto contrastanti. Lavoro è fonte di vita, di sostentamento, offre dignità all’uomo e, in ultima istanza, fonda la società, come recita il lungimirante – e spesso ahinoi disatteso – primo articolo della nostra Costituzione. Dai tempi dei nostri progenitori, però, lavoro è anche sinonimo di fatica, preoccupazione addirittura dannazione, quasi che, nella sua forma che noi tutti conosciamo, sia una delle più evidenti conseguenze del peccato originale.

L’ambivalenza del lavoro, croce e delizia dell’umanità, vede la sua conferma quando lo associamo alla famiglia. Due mondi che spesso cozzano, si scontrano, sgomitano in una sempiterna lotta a contendersi il tempo e lo spazio, eppure due mondi inscindibili. Non esiste famiglia senza lavoro e, anzi, chi intende sposarsi senza avere un’occupazione è quasi sempre visto come un irresponsabile o quanto meno una persona molto imprudente. Oggi, poi, a differenza di quanto ancora poteva avvenire fra i nati a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, non esiste quasi più nucleo famigliare in cui non lavorino entrambi i coniugi.

La legittimita parità dei sessi e le ragioni di autosufficienza economica hanno comportato l’uscita di casa di entrambi i membri della coppia e spesso la necessità di una figura terza per l’accudimento dei figli. Che questa sia davvero una conquista non tutti convengono, ma è fuori discussione che alle donne non possa essere chiesto di sacrificare ogni potenzialità professionale sull’altare della maternità e della famiglia. Si apre quindi, sempre più man mano che le generazioni si succedono, una difficile piattaforma di trattativa che vede i genitori impegnati in una dialettica sempre da ricominciare. A chi spettano tutti quei compiti indispensabili per condurre avanti una famiglia che esulano dal portare a casa lo stipendio? Chi deve fare questa parte del lavoro? Non ci sono professioni più importanti di altre, ci sono solo orari da far incastrare, generosità da mettere in campo, capacità di sdoppiarsi (in cui è inutile ammettere che le donne hanno una marcia in più). Bisogna riconoscere che lavorare, inteso nel senso di occuparsi di qualcosa, al di là del compenso, può diventare in una famiglia con almeno un paio di figli una sorta di infinito nastro trasportatore che fa scorrere i giorni e le ore senza soluzione di continuità. Anche per i ragazzi l’impegno scolastico, i compiti a casa e le diverse attività, comprese quelle sportive, possono essere vissute come un lavoro.

Si tratta di assumerne, però, non tanto la dimensione di fatica, quanto quella di responsabilità, di ossequio e allenamento al senso del dovere. Insomma il lavoro accompagna passo passo la nostra ferialità, il nostro quotidiano scalare il mondo, dice chi siamo ma non ci rappresenta completamente. Così come sarebbe bello che tutti sapessimo “staccare” di più, trovare tempo per lo svago, il divertimento, il tempo sabbatico settimanale (come tempo di qualità con e per la famiglia), altrettanto sarebbe importante che gli uomini e le donne di oggi ammettessero, come davanti ad uno specchio, che sono e valgono molto di più di quello che sanno fare, o di quanto guadagnano. Il lavoro nobilita, la disoccupazione è una piaga sociale e un dramma umano per molti, eppure ci è chiesto ancora il coraggio di saper guardare in volto ognuno di noi e riconoscerci in quanto tali, non per titoli o categorie professionali. Come dice il poeta, felice chi ha un lavoro che lo gratifica e lo appassiona con il segreto sospetto, però, che chi vive questo privilegio ha paradossalmente scelto di non mettere la professione al primo posto. Perché il lavoro sarà sempre un mezzo e non un fine.

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Fonte: Sir