Oltre le lacrime delle cose. A cent’anni dalla sua scomparsa, Verga ci appare in tutta la sua grandezza

Verga voleva far notare ai sazi, salottieri borghesi del suo tempo, che lottavano contro la noia e non contro la fame, la situazione di un sottoproletariato privo di garanzie.

Oltre le lacrime delle cose. A cent’anni dalla sua scomparsa, Verga ci appare in tutta la sua grandezza

“Aveva fatto un po’ tutti i mestieri: scalpellino, fornaciaio, e infine manovale. Dacché si era rotto un braccio non era più quello; e i capomastri se lo rimandavano dall’uno all’altro, per levarselo di fra’ i piedi”. È la storia di un uomo, diventato un vagabondo solitario, che decide di farla finita perché non trova più lavoro, quella narrata da Giovanni Verga, di cui si ricordano i cento anni dalla scomparsa, nel racconto “L’ultima giornata”. Una delle drammatiche storie reali, non finzioni letterarie, cui fa riferimento, e non da oggi, il Pontefice nei suoi interventi: storie che, come quella narrata dal grande scrittore siciliano, finiscono nella tragedia, perché alcuni non sopportano di essere diventati inutili o, peggio, un peso per la famiglia già provata dalla miseria.

E anche questo ci dovrebbe far riflettere sulla inutilità di certe etichette appiccicate agli scrittori, come quella di pessimista, materialista, e tanto altro. Perché l’autore dei Malavoglia è stato considerato lo scrittore della perdita delle speranze del popolo, e del fatalismo più integrale, mentre è evidente che volesse far semplicemente notare ai sazi, salottieri borghesi del suo tempo, i quali lottavano contro la noia e non contro la fame, la situazione di un sottoproletariato privo di garanzie, vessato dai padroni, in balìa degli agenti atmosferici. L’occhio di Verga era velato da una profonda pietas: il fatto che raccontasse le cose come stavano non significa che avesse eliminato la speranza dal loro orizzonte. Certamente lui narrava storie di disoccupati, o di pescatori, o di gente del popolo che arricchendosi aspirava sempre al meglio, perfino alla nobiltà, come mastro-don Gesualdo, per finire nella solitudine. Certo, lo scrittore aveva assistito alla crisi dei valori risorgimentali e alla fine degli ideali garibaldini con la creazione di governi “stranieri”, come al sud erano considerati i Piemontesi, moderati e semmai tesi a rafforzare l’industrializzazione del Paese soprattutto al nord, a danno dell’agricoltura e della pesca del nostro Meridione. A questo punto sarebbe meglio chiamarlo realista per la sua capacità di narrare le “lacrime delle cose”, come recita un suo titolo mutuato da Virgilio.

Perché se si legge bene tra le sue righe, si trova anche il bene: come chiamare altrimenti l’episodio finale del suo capolavoro in cui il giovane Alessi riesce a ricostruire il nucleo famigliare? Gli strenui sostenitori del Verga pessimista ad oltranza affermano che quella ricostruzione è costata sangue sudore e lacrime, ed è vero: ma Verga, da scrittore vero, non poteva ignorare l’altra faccia della luna, la situazione di quanti vivevano senza protezione alcuna, alla mercé degli eventi, naturali ed umani. Anche un apparente perdente, come ‘Ntoni, è in realtà un uomo che prende coscienza dell’impossibilità di rimanere, perché a lui tocca l’altra sfida, quella del viaggio per ritrovare il senso perduto altrove. Altri personaggi, come Mena, sono l’incarnazione dei valori della famiglia, eroicamente conservati nonostante le avversità, una vera e propria mater arcaica, custode silente e coraggiosa del focolare domestico. E un lontano ricordo dell’eroismo vero di tante donne del popolo. La narrazione corale è una presa di distanza di Verga dalla sua opera giovanile, che celebrava gli amori folli, lussuriosi, tutt’uno con la ricerca di nuove emozioni a scapito dell’unità familiare. Il Verga di “Tigre reale” e di “Eros”, che narrava i falsi ideali, i tradimenti, l’amore per il lusso e la noia di una classe che aveva perduto i tradizionali punti di riferimento in favore di una non meglio identificata felicità sentimentale, aveva capito che i veri valori erano e sono altri: il coraggio di lottare per salvare gli affetti familiari contro i pericoli, la fame. In qualche modo Verga è anche lo scrittore della rinascita attraverso il ritorno alla Casa del Nespolo di ognuno di noi: la buone radici, gli affetti oltre le apparenze, oltre la pura, inesorabile materia mascherata da festa inutile. Verso un amore più profondo,

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Fonte: Sir