Padre Christian Carlassare, 43enne di Piovene Rocchette, sarà in Sud Sudan il più giovane vescovo cattolico del mondo

Papa Francesco ha nominato padre Christian Carlassare, originario di Piovene Rocchette, vescovo di Rumbek. È il più giovane del mondo, a 43 anni, nel Paese più giovane del mondo

Padre Christian Carlassare, 43enne di Piovene Rocchette, sarà in Sud Sudan il più giovane vescovo cattolico del mondo

È un vicentino, originario della Diocesi di Padova, il vescovo più giovane della Chiesa cattolica. Il comboniano padre Christian Carlassare, nato a Schio il 1° ottobre 1977 e cresciuto a Piovene Rocchette, è stato nominato da papa Francesco vescovo di Rumbek, in Sud Sudan. «È una notizia che rallegra e che ci coinvolge, sapendo che sei nativo di Piovene Rocchette, dove abitano ancora i tuoi familiari e dove mantieni rapporti intensi di amicizia e condivisione – scrive il vescovo di Padova Claudio Cipolla in una lettera di felicitazioni a padre Christian – Il nostro ufficio missionario ha sostenuto e ancora sostiene alcuni progetti legati al tuo servizio missionario in Sud Sudan».

Con i suoi 43 anni padre Christian Carlassare è quindi il più giovane vescovo del mondo nel più giovane Paese al mondo, visto che il Sud Sudan si è costituito formalmente come Stato solo il 9 luglio 2011. L’abbiamo raggiunto al telefono in Africa.

Un vescovo giovane in un Paese giovane. Padre Christian, si tratta solo di una coincidenza?

«Lo è di sicuro, ma è anche una chiamata. Il Sud Sudan non è solo uno Stato molto giovane, ma metà della popolazione ha meno di 18 anni e chiede di avere pastori giovani. A Rumbek, di fatto, facciamo solo pastorale con i giovani perché anche la conversione al cristianesimo è un fatto recentissimo. Il lavoro che faremo nei prossimi anni è riuscire a coinvolgere di più gli adulti e gli anziani. Praticamente è il contrario di quello che avviene in Italia».

L’Alto Vicentino, da cui proviene, è molto legato alla figura di Bakhita, originaria proprio del Sudan. Ha avuto un ruolo questa figura nel suo percorso?

«Certamente, fin da ragazzo. A Schio la figura di Bakhita è inserita nel tessuto del Paese. Avere come “concittadina” una sudanese che ha sacrificato la sua vita per le sofferenze della gente del suo tempo è stato per me un grande incoraggiamento. Lo è stato ancora di più quando nel 2005 sono stato mandato dalla mia congregazione in Sudan, allora ancora un Paese unico. Mi sento un figlio spirituale di Bakhita, figura che parla molto al Sud Sudan di oggi, soprattutto perché donna».

A che punto è il cammino del Sud Sudan?

«Come abbiamo detto, il Sud Sudan è uno Stato giovane, ma il suo cammino viene da lontano ed è proseguito tra alti e bassi, momenti di calma e momenti in cui la situazione è collassata. Anche dopo l’indipendenza si è passati dalle grandi speranze ai problemi irrisolti ed emergenti: come governare il Paese e come utilizzarne le risorse. Le relazioni tra tribù e clan sono complicate. Nel 2013 abbiamo attraversato una nuova ondata di violenza che ha provocato 4 milioni di sfollati su 10 milioni di abitanti. Il Paese, di fatto, è smembrato. Inoltre ogni tribù ha deciso che doveva difendersi da solo perché lo Stato non assicurava protezione, così ora circolano molti gruppi armati. La violenza ha toccato solo marginalmente Rumbek, ma anche qui gli episodi di violenza e di furti del bestiame sono frequenti. La gente, purtroppo, è abituata ad un clima di violenza».

La Chiesa come accompagna questo cammino?

«Il processo di pace ha portato a cose buone. La Comunità di Sant’Egidio tiene i rapporti con i gruppi etnici rimasti fuori dal Governo. C’è speranza per il futuro, ma la violenza può esplodere da un momento all’altro. Collaborare al processo di pace è questa la grande sfida per la Chiesa».

Come ha reagito alla nomina a vescovo? Se l’aspettava?

«Se l’avevo subodorata, speravo che toccasse ad altri. Ho cercato di fare come Geremia e far capire che non era il caso proprio perché sono giovane. Ma alla fine, con la nomina in mano, ho pensato a questa gente, al cammino che sta facendo, al lavoro di tanti missionari e ho deciso che dire “no” non sarebbe stato né giusto né rispettoso. Il mio è stato un “sì” sofferto perché conosco le difficoltà che ci saranno, ma è un “sì” fiducioso. Mi è stato assicurato che non sarò solo e sono convinto che un vescovo non può fare niente se non ha accanto religiosi, preti e laici».

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