Un’eroica leggerezza. Aura (Aurelia) Pasa ha 37 anni quando varca il cancello del campo di concentramento di Bolzano

Aura racconta con la leggerezza delle sue rime e dei suoi disegni la dura e feroce quotidianità nel Lager così come i momenti speciali.

Un’eroica leggerezza. Aura (Aurelia) Pasa ha 37 anni quando varca il cancello del campo di concentramento di Bolzano

“Carissimi, non allarmatevi per questa carta quasi indecente; non è molto sporca: è la carta che avvolgeva le patate americane che avrei dovuto mangiare a Negrar il giorno che sono stata presa. Qui sono affaccendati e non ho il coraggio di disturbarli. (…) Come va? Vi siete abituati a star senza di me? Se sapeste che pensiero ho per le eventuali noie che vi potessero dare per causa mia! (…) Che malinconia stasera non poter uscire alle otto! Beh, non pensiamoci. Sapete una cosa? Che se non si sbrigano ad aprire la porta e a farmi uscire un po’, scrivo un poema e poi dovranno faticare molto a decifrarlo”.

Aura (Aurelia) Pasa ha 37 anni quando varca il cancello del campo di concentramento di Bolzano. Nata il 17 ottobre 1907 a Mel, in provincia di Belluno, cresce a Verona, dove il padre Attilio, scrittore e professore viene nominato ispettore capo delle scuole della città. Diplomata alla Reale accademia delle Belle arti di Venezia, Aura insegna disegno in istituti inferiori e superiori. Liberale e democratica, dal settembre 1943 diventa partigiana combattente, affiancando prima il fratello Angelo e poi nel “Battaglione Montanari”. Viene arrestata una prima volta dalla polizia fascista il 25 novembre 1943, ma viene rilasciata dopo alcune ore perché il cognato Nino Dean si addossa ogni responsabilità. Dall’agosto ’44 inizia il suo lavoro di collegamento con i partigiani in montagna. Il 12 ottobre Sergio Menin, una spia infiltratasi nel gruppo, la denuncia e la polizia fascista l’arresta e la porta nella sede dell’Ufficio politico investigativo. Per otto giorni viene sottoposta a lunghi e duri interrogatori. Viene quindi consegnata alle SS con l’accusa di essere “antifascista, antitedesca e staffetta della Divisione Pasubio” e rinchiusa in una cella sotterranea. Il 28 ottobre viene trasferita nel Lager di Bolzano, dove viene messa a lavorare in sartoria.

Il campo di Bolzano era un campo di transito, dove all’indomani della chiusura del campo di Fossoli, i nazisti radunarono tra l’estate 1944 e la primavera 1945 i prigionieri destinati ad essere deportati nei grandi Lager del Terzo Reich, da cui pochissimi riuscirono a fare ritorno. Frustate, percosse, vessazioni erano una consolidata consuetudine. Si stima che tra i prigionieri del campo ne venisse ucciso uno ogni quattro giorni.

A Bolzano vengono deportati circa 10mila persone tra uomini, donne e bambini. Di questi circa 360 sono ebrei; ci sono alcune famiglie di sinti e rom e qualche testimone di Geova. La stragrande maggioranza dei prigionieri sono deportati politici, uomini e donne rastrellati da nazisti e fascisti e avviati al lavoro coatto e anche intere famiglie tenute in ostaggio al posto di qualche familiare che non si è presentato alla leva nazista. Le donne sono circa 700. E anche nella prigionia, non smettono di prendersi cura delle loro famiglie. Le loro lettere, che ci sono pervenute, hanno quasi sempre un tono rassicurante e protettivo. La “leggerezza” con cui sono tessuti i caratteri su fogli di carta, spesso sgualciti e malandati, si declina in racconti in cui vengono minimizzati i disagi ed enfatizzati l’ottimo stato di salute e il “buonumore”. Tra loro c’è anche chi va oltre. Come Aura. Scrivono, disegnano, compongono poemi che raccontano la voglia e la tenacia di non essere ridotte a numeri, di mantenere la propria dignità.

Il racconto che Aura fa di quel “soggiorno in un albergo pieno” in cui – come scrive in una lettera inviata ai suoi familiari – lei era diventata la poetessa e la disegnatrice “di corte” che faceva ritratti ai deportati “a ricordo del soggiorno”, è raccolto in tre blocchetti di quelli che si usavano nella sartoria del campo. Tre blocchetti che per anni sono rimasti chiusi in un cassetto. Fino ad oggi. “Mia mamma – racconta la figlia Giuliana Zampieri – insegnava disegno e storia dell’arte e credo che più o meno consciamente abbia assunto il ruolo di ‘menestrella’ in sartoria, per alleviare la sofferenza delle sue compagne e per aiutare se stessa”.

Due di quei taccuini sono esposti per la prima volta fino a fine gennaio nella Galleria civica di Bolzano, grazie alla mostra “Menestrella nel Lager”, realizzata in occasione della Giornata della memoria 2023 dall’Aned (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti) di Milano con il supporto di Giuliana Zampieri, la figlia di Aura Pasa.

Nei suoi schizzi, Aura sceglie come sempre di non riprodurre scene di violenza o di disagio, ma cerca di cogliere con occhio ironico (ed autoironico) gli aspetti più comici e paradossali della vita nel campo di concentramento. Come quando si ribaltavano i precari sedili su cui nelle gelide giornate invernali, le deportate cercavano di stringersi l’una all’altra per riscaldarsi vicino all’unica stufa della loro baracca.

Un modo, quello scelto da Aura, per sopravvivere agli orrori a cui assisteva ogni giorno e di cui non ha mai voluto parlare. “Ora so che è stata testimone di esecuzioni, violenze, stupri – racconta la figlia Giuliana – ma nelle lettere che mandava a casa usava sempre toni rassicuranti e fantasiosi”.

Aura racconta con la leggerezza delle sue rime e dei suoi disegni la dura e feroce quotidianità nel Lager così come i momenti speciali. “Allibite e senza fiato – annota Aura sul suo blocchetto – prendiam posto di un lato, mentre al ciel sal la preghiera: di sta fuori fino a sera”. È il 1° aprile 1945, domenica di Pasqua. Le cronache ci raccontano che quel giorno il vescovo di Belluno, mons. Girolamo Bortignon, ottenne il permesso di poter celebrare la s. messa per i prigionieri. L’altare, come si può vedere nel disegno di Aura, venne posto a ridosso dei Blocchi A e B, vicinissimo al Blocco celle e tutti i prigionieri furono sistemati a quadrato attorno all’altare. Una disposizione, questa, tutt’altro che casuale. Mentre, infatti, mons. Bortignon presiedeva la celebrazione sul piazzale, molti sentirono distintamente le urla disperate di un giovane prigioniero, Bortolo Peruzzi, che proprio nel Blocco celle venne selvaggiamente trucidato quel giorno dalle guardie Misha Saifert, il “boia di Bolzano”, e da Otto Sain.

L’ultima pagina dei taccuini di Aura Pasa porta scritta a lettere cubitali una data: domenica 29 aprile. E una parola: libera!

La guerra è finita e dopo mesi di violenze, fame e soprusi, per Aura e per gli altri prigionieri si aprono le porte del Lager. “Vado a casa…” scrive Aura. Era viva, era riuscita a sopravvivere a quell’orrore, ma quei mesi avevano lasciato un segno indelebile nella sua esistenza presente e futura. “Quando va a chiedere di tornare ad insegnare, si sente rimproverare di essersi impicciata di politica e di aver abbandonato la scuola per il Lager – scrivono i curatori della mostra, che ritroviamo anche sulle pagine Fb dell’Aned di Milano e dell’Anpi Trentino Alto Adige –. Aura rinuncia così all’insegnamento, si ritira da qualsiasi attività politica e sociale, si sposa e si dedica completamente alla sua famiglia”. Non volle mai parlare dei mesi trascorsi nel Lager. Non chiese e non volle nulla. Serbò per sé quegli orrori, che ritroviamo oggi raccontati, con eroica leggerezza, nelle sue rime e nei suoi disegni.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir