Violenza domestica, il (non) riconoscimento nei tribunali

Una ricerca dell’associazione Dire mostra come la Convenzione di Istanbul non sia mai citata come riferimento normativo dai giudici nei tribunali civili e per minorenni. La conseguenza? “La decisioni in merito alla custodia e al diritto di visita dei figli ledono i diritti di chi ha subito maltrattamenti”

Violenza domestica, il (non) riconoscimento nei tribunali

“Nei tribunali civili e per i minorenni, che spesso intervengono nel percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne madri supportate dai centri antiviolenza, la Convenzione di Istanbul sembra di fatto sconosciuta e non viene applicata per quanto riguarda le decisioni in merito all’affidamento di figlie e figli”. È la denuncia dell’associazione Dire – Donne in rete contro la violenza, che presenta i risultati di una nuova ricerca realizzata attraverso un’inchiesta che ha coinvolto 54 avvocate che collaborano con i centri della rete, supportando in media 15 donne ogni anno. La ricerca, intitolata “Il (non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni”, mostra come la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne non sia mai citata come riferimento normativo dai giudici, e questo comporti, tra le altre cose, decisioni in merito alla custodia e al diritto di visita dei figli che ledono i diritti di chi ha subito maltrattamenti.

“Questa ricerca è importante perché riflette l’esperienza concreta delle avvocate che accompagnano le donne nei tribunali e le seguono, conoscendo bene le difficoltà che si incontrano nel percorso con la giustizia”, afferma Antonella Veltri, presidente di Dire.

L’indagine ha preso in esame i procedimenti giudiziari presso i tribunali civili e per i minorenni nel periodo compreso tra il primo gennaio 2017 e il 30 giugno 2019. L’obiettivo era di verificare l’applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul relativo alla “Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza”, che impone “la necessità di considerare la violenza (e la sicurezza della madre) nella determinazione e regolamentazione di tali diritti, il divieto di meccanismi obbligatori di mediazione, la necessità di strumenti di valutazione del rischio, la protezione della vittima”. Eppure, nonostante il 78 per cento delle avvocate dichiari che la documentazione riguardo la violenza subita dalla donna, e la violenza assistita dai minori, venga posta a fondamento delle sentenze, solo il 42 per cento riferisce che la violenza venga riconosciuta anche solo in minima parte, e la Convenzione di Istanbul non è mai citata come riferimento normativo.

Le decisioni in merito a custodia e diritto di visita. Ancora più grave è la situazione quando si guarda alle decisioni in merito ai minori che possono aver assistito alla violenza o aver subito violenza essi stessi: “Ancora oggi per i tribunali l’obiettivo principale è salvaguardare e conservare ‘il rapporto con la prole’, ovvero il legame genitore-figlio, indipendentemente dalla presenza di condotte violente nei confronti della madre – affermano le avvocate Titti Carrano ed Elena Biaggioni, che hanno curato la ricerca –. La convinzione radicata è che un uomo maltrattante possa essere un buon genitore”.

Solo il 22 per cento delle avvocate che hanno partecipato alla ricerca dichiara che gli incontri protetti tra il padre maltrattante e i figli vengono organizzati in modo da tutelare la madre. Mancano strumenti per la valutazione del rischio, e nell’89 per cento dei casi presso il tribunale ordinario – nel 52 per cento dei casi presso il tribunale per i minorenni – è stato disposto l’affidamento condiviso tra i genitori anche in presenza di denunce, referti, misure cautelari emesse in sede penale, decreti di rinvio a giudizio, sentenze di condanna e relazioni dei centri antiviolenza. Nel 70 per cento dei casi presso il tribunale ordinario, e addirittura nel 91 per cento dei casi presso il tribunale per i minorenni, è stato disposto l’affidamento ai servizi sociali, anche se nella quasi totalità dei casi è stato anche deciso il collocamento presso la madre.

“Il presupposto per disporre l’affidamento a terzi è l’inidoneità di entrambe le figure genitoriali a prendersi cura in maniera adeguata dei figli – continuano Carrano e Biaggioni –. Allo stesso tempo, i giudici ritengono che sia la donna maltrattata il genitore ‘idoneo’ a prendersi materialmente cura degli stessi. Questa situazione è conseguenza diretta della confusione tra violenza e conflitto, uno degli ostacoli principali di accesso alla giustizia da parte delle donne che subiscono violenza”.

Come le Ctu rivittimizzano le donne che hanno subito violenza. La ricerca approfondisce anche il funzionamento delle Ctu, le Consulenze tecniche d’ufficio, che vengono disposte nel 76 per cento dei casi presso i tribunali civili per i quali le avvocate hanno fornito documentazione comprovante la violenza. I risultati mostrano che, nell’83 per cento dei casi, i quesiti ai quali le Ctu sono chiamate a rispondere sono standardizzati e non definiti in base al caso preso in esame, e ben nel 94 per cento dei casi non sono poste domande in merito alla violenza subita o assistita. Si tratta cioè di quesiti che ancora una volta indagano quello che i magistrati ritengono essere un conflitto tra genitori, e non una situazione di violenza.

Tre avvocate su quattro dichiarano che l’alienazione parentale o altri comportamenti manipolatori da parte della madre sono citati nelle relazioni delle Ctu, che insieme alle Ctp (le consulenze tecniche di parte, spesso necessarie proprio per difendersi dalle Ctu) muovono un ingente flusso di denaro: nel 75 per cento dei casi tali perizie arrivano a costare fino a 5 mila euro.

Inoltre, le avvocate confermano che le sentenze sono scritte di fatto dalle Ctu: in tutti i casi presi in esame il giudice, acquisita la relazione del consulente, assume nel proprio provvedimento i suggerimenti proposti.

La mediazione familiare: un passaggio obbligato. Nei casi di separazione e affidamento che coinvolgono donne che hanno subito violenza, la Convenzione di Istanbul vieta esplicitamente la mediazione obbligatoria. Eppure, quasi il 65 per cento delle avvocate intervistate dichiara che il tribunale ordinario invita invece i genitori alla mediazione, e una percentuale ancora più alta si registra da parte del servizio sociale (70 per cento). Infine, quasi il 60 per cento delle avvocate dichiara che sia il tribunale ordinario che i servizi sociali invitano i genitori a intraprendere un percorso di sostegno alla genitorialità. “Questa prassi – spiegano le curatrici – è in aperta violazione dell’articolo 48 della Convenzione di Istanbul e produce una vittimizzazione secondaria”.

Cosa fare? La risposta sta nelle raccomandazioni del Grevio , il gruppo di esperti sulla violenza contro le donne, che nel suo rapporto sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia pubblicato a gennaio 2020 ha espresso “preoccupazione verso la tendenza del sistema in vigore di esporre alla vittimizzazione secondaria le madri che, denunciando la violenza, tentano di proteggere i propri bambini”. Tra i bisogni messi a fuoco, c’è quello di garantire l'applicazione delle disposizioni di legge sul reato di maltrattamento in famiglia, che è sensibile alla connotazione di genere della violenza domestica sulle donne, e assicurare che le disposizioni della Convenzione di Istanbul siano implementate senza discriminazioni.

“Questa ricerca vuole essere un contributo al necessario e urgente ripensamento del funzionamento della giustizia civile e minorile rispetto alla violenza contro le donne e alla violenza assistita – conclude la presidente di Dire Antonella Veltri –. Continueremo a impegnarci per porre fine alla vittimizzazione secondaria di donne e minori, una violenza istituzionale che non dovrebbe esistere più in un paese che ha firmato e ratificato la Convenzione di Istanbul”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)