Annagaia Marchioro porta sul palco la fame dei malanni dell'anima

Fame mia – quasi una biografia è il monologo teatrale, a tratti drammatico, a tratti ironico, liberamente ispirato al romanzo Biografia della fame della scrittrice Amélie Nothomb, attraverso il quale Annagaia Marchioro parla della fame che non è altro che di vita, amore, ricerca, desiderio tra disillusioni, fallimenti e imperfezioni.

Annagaia Marchioro porta sul palco la fame dei malanni dell'anima

«Si ride molto, si viaggia un po’. Ed è anche un incoraggiamento ad affrontare le nostre crisi più difficili…».  

Così Annagaia Marchioropresenta il suo “Fame mia. Quasi una biografia”, andato in scena domenica 29 gennaio al Teatro comunale Quirino de Giorgio a Vigonza, nell’ambito della rassegna #Tempopresente 2022-23 curata da Cristina Palumbo per Echidna. Diplomata alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, nel 2011 ha fondato la compagnia Le Brugole e ha partecipato con due monologhi a “La TV delle ragazze–Stati Generali 1988-2018”.  

Prima, Annagaia Marchioro si è laureata in filosofia: «Non è pane quotidiano, ma ce n’è sempre bisogno come chiave di lettura. Un accesso al mondo, e oggi più che mai ci servono nuove forme di filosofia politica».  

Questa è l’epoca degli chef, dell’estetica del nutrimento e perfino della dittatura del successo gastronomico… 

«Il cibo, in realtà, è un tema ben più complesso. Nello spettacolo, per altro, tratto della fame: mi sono ispirata al romanzo Biografia della fame di Amélie Nothomb. Noi italiani siamo affamati cronici: dovremmo trovare la vera ragione di ciò e non appiattirla in programmi tv. Sul palcoscenico affronto la fame esistenziale. Penso che ridurre il cibo a vicenda gastronomica sia riduttivo». 

Che alimento è l’ironia? 

«Uno strumento sopraffino. La comicità ne è solo una parte. Mi vien da dire che la comicità è… piatta, mentre l’ironia ha più strati. E cerco di farli assaggiare tutti al pubblico». 

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E a teatro come ci si alimenta? 

«Con i biglietti degli spettatori (sorride, ndr). Il teatro vive con il pubblico, persone che si ritrovano legate insieme nella sala. Il teatro mi ha appassionato: ne avevo fame e consiglio a chiunque di farlo. Per me, è stato terapeutico per i miei malanni dell’anima. Se non avessi avuto il teatro, sarei diventata una persona arida e infelice». 

Anoressia e bulimia, cibo a km zero o geneticamente modificato, fame a tavola o “street food” restano dietro le quinte? Tema: ecologia non lo tratto. Cari, spero di introdurli.  

«Non affronto questo genere di suggestioni. Ma sono temi cari, collegati all’ecologia: spero di cimentarmi. Nello spettacolo parlo della fame da Arlecchino, che  contraddistingue tutte le figure di clown. Sono una donna piena di fame. Bulimia e anoressia sono solo modi di aver fame, quando il cibo diventa un’ossessione. Amelie Nothomb ha scritto benissimo: “Questa è la storia di una donna che aveva fame, che aveva così tanta fame, da smettere di mangiare”. Il suo libro, che ispira lo spettacolo, non è sull’anoressia, ma appunto sulla fame: necessità in grado di abitarti anche quando sei sazio». 

E il monologo di Annagaia, invece, come nasce? 

«Mi sono innamorata del libro. All’inizio ho tentato di metterlo in scena. Poi mi sono resa conto che serviva una storia italiana, veneta, vicina alla mia biografia. E sono arrivate varie versioni del testo, finché grazie alla collaborazione di Gabriele Scotti nella drammaturgia e di Serena Sinigaglia alla regìa siamo approdati al compimento: lo spettacolo come avrei voluto realizzarlo all’inizio». 

La fame come metafora dell’esistenza? 

«Rappresento una storia di scoperte e di passioni. La fame non è altro che fame di vita, amore, ricerca, desiderio. Ma quando tutto ciò è vorace, il nostro essere passionale si ritorce contro di noi. E si può avere così tanta fame da non essere mai paghi, da non sopportare una sazietà a metà, da smettere di mangiare del tutto. Alla fine, non so bene se sia speranza, ma di certo la ricezione catartica della vita». 

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